Introduzione del mio libro Noi saremo la mitraglia della santa Libertà! (Il Fiorino 2022)
«Attento
comunista! Il sasso fischia ancora!»[1].
Ad un primo impatto può sembrare un motto del Ventennio, in tutto e per tutto
simile ad altri celebri slogan mussoliniani. In realtà si tratta di uno dei
molteplici commenti pubblici in cui mi sono accidentalmente imbattuto nel corso
delle mie ricerche per la stesura di questo libro. Per leggerlo, non occorre
certo avventurarsi in qualche sito nostalgico o neofascista: al contrario, è
sufficiente navigare su YouTube, dove i canti della dittatura sono presenti a
decine. Ora, che il web potesse costituire una risorsa utilissima per studiare
i brani musicali del periodo fascista era nelle mie aspettative, e così in
effetti è stato; decisamente sorprendente si è invece rivelata la costante
presenza di brevi scritti di corredo ai video, se così è lecito definirli. In
concreto, centinaia di esternazioni, non di rado scurrili e violente, spontaneamente
rilasciate da utenti desiderosi di condividere opinioni personali. L’apposita
sezione «Commenti» è questo, in sostanza: una zona franca nella quale dare
sfogo alle proprie passioni ed ai propri istinti, un luogo libero da qualsiasi
forma di censura.
Dicevo del
motto. Esso compare sotto il canto Balilla!,
meglio conosciuto come Fischia il sasso,
ovvero l’Inno dei Fanciulli Fascisti, composto nel 1923 con versi di Vittorio
Emanuele Bravetta e musica di Giuseppe Blanc. Si tratta di uno dei brani più
celebri del Ventennio, dal quale ho scelto di trarre la citazione che dà il
titolo a questo libro. Ma già qui è bene che precisi un concetto: dal momento
che si trova a portata di clic su YouTube, è lecito confinare il canto in
questione al periodo della dittatura? Ha senso considerarlo semplicemente come
un documento storico? Mi pongo queste domande perché ho l’impressione che
internet doni per così dire una seconda vita a brani come Balilla!, fino a non molti anni fa reperibili solo su cd venduti –
immagino – a pochi curiosi o nostalgici. Oggi chiunque abbia un computer o uno
smartphone può facilmente ascoltare tutto ciò che vuole. E non mi pare una differenza
da poco.
I canti del
fascismo, dunque, sono alla portata di tutti. Di alcuni brani esistono persino
versioni techno, da discoteca[2].
Non si sta più parlando, pertanto, di un mero luogo della memoria, per riprendere
il titolo di un fortunato libro curato da Mario Isnenghi[3].
Studiare i vecchi inni del regime nel 2022, a cento anni esatti dalla Marcia su
Roma, significa fare i conti con il presente, oltre che con il passato. Si
tratta di un aspetto non sufficientemente indagato in sede storiografica, anche
per un banale motivo cronologico: alcuni degli studi più validi sul tema
risalgono infatti ai primi anni Duemila, quando la portata di questo fenomeno
di diffusione di massa non era certo paragonabile a quella odierna.
Ciò premesso,
è bene fare chiarezza sullo scopo del presente volume. Esso non vuole essere un
canzoniere – giacché già ne esistono di accurati –, bensì un approfondimento su
alcuni macrotemi della propaganda fascista, veicolati attraverso i canti. In
concreto, cosa cercava di comunicare il fascismo con questo strumento? L’idea
di fondo è tentare di offrire un’analisi testuale che permetta di andare oltre
le banalità che circolano sul web. All’origine di tutto sta essenzialmente una
domanda: quando al giorno d’oggi un utente di YouTube ascolta Giovinezza, Balilla! o Faccetta nera,
di preciso a cosa pensa?
Verosimilmente, chi intona gli inni del Ventennio a un
secolo dalla Marcia su Roma vuole riconoscersi in un simbolo, a prescindere dai
testi. La canzone, in questo senso, è l’equivalente di un marchio, di una firma
da esibire per palesare una presa di posizione ideologica. “Canto dunque sono”,
verrebbe da dire parafrasando Cartesio. Ma così facendo i versi sbiadiscono
sullo sfondo, sospesi in uno spazio e in un tempo indefiniti; e il canto
diventa sfogo irrazionale, aggressiva frustrazione, esplosione di rabbia. È qui
che deve intervenire il lavoro dello storico, essenzialmente per chiarire che
le parole erano parte basilare delle strategie di comunicazione del regime, e
tracciano ancora oggi l’unica via percorribile per accostarsi in modo
consapevole ai canti. Il testo, in concreto, deve essere ricollocato in primo
piano, poiché esso solo consente di indagare la mentalità che sta all’origine
della vasta produzione canora del Ventennio. Parte da qui lo stimolo ad
approfondire alcuni macrotemi della propaganda fascista, veicolati attraverso
uno strumento solo in apparenza di facile comprensione. Non si tratta – si badi – di riconsegnare alla storia brani di ottanta
o cento anni fa. Come ho anticipato, sono già disponibili validi lavori che
assolvono egregiamente questo compito. Il mio obiettivo è condurre il lettore
alla scoperta di un particolare modo di pensare. Il fascismo, nelle sue
canzoni, parlava di giovinezza, di sfrontatezza, di libertà. Ma in che senso,
per l’appunto? Noi siamo abituati ad un’immagine aggressiva del regime, con i
vari «Vincere!» e «Credere, obbedire, combattere»; eppure nei canti del Ventennio è
presente non di rado un certo vittimismo, che cela a ben vedere un inconfessato
senso di inferiorità. Secondo Leo Donati, c’è perfino chi canta Faccetta nera credendo «di celebrare il
colore del fascismo», senza sapere che in realtà la canzone – invisa al
Minculpop in quanto «fraternizzante con gli abissini» – ricorda la «simpatia
[dei soldati italiani] per la popolazione africana»[4]
(di sesso femminile).
A ben vedere,
però, il problema non è tanto l’ignoranza di massa. Di per sé, che ai più
sfugga completamente il significato storico del riferimento al «ragazzo di
Portoria» o al «Fuoco di Vesta» è più che comprensibile e scusabile. Sono ben
altre, per intenderci, le lacune che dovrebbero destare preoccupazione.
L’aspetto più delicato, a mio avviso, è la sopravvivenza dei canti del Ventennio
come simboli di appartenenza. La forza della musica, del resto, è superiore a
quella dei testi. Quanti italiani si emozionano cantando l’inno
nazionale senza sapere nulla
dell’«elmo di Scipio»? E quanti dei nostri nonni o bisnonni che intonavano la Leggenda del Piave conoscevano il
significato di parole quali «gremir», «brame» e «aprico»? Il punto, come
sottolinea Gianni Borgna, è che «la canzone risponde a un bisogno di poesia»; e
lo fa in modo semplificato, alla portata di tutti, perché in fondo bastano
poche note per creare motivetti orecchiabili che, anche se non ce ne rendiamo
conto, «sanciscono strani matrimoni con le occasioni sentimentali della nostra
vita»[5].
La canzone,
inoltre, è un potente strumento di aggregazione. Vale per i concerti, ma anche
per le piazze, teatro delle manifestazioni politiche. Per un gruppo di persone
– di qualsiasi genere: un partito, una squadra di calcio, una comunità
religiosa… – avere uno o più inni è fondamentale per cementare il senso di
appartenenza ad una causa comune, o anche solo per percepire una visione d’insieme.
Cantare, in altre parole, unisce, avvicina e coinvolge. E in questo processo –
ce ne accorgiamo quando sentiamo “nostra” una canzone in lingua inglese pur
ignorando completamente la traduzione delle parole – il testo risulta essere
del tutto secondario, semplicemente perché la musica crea assuefazione. Umberto
Eco lo aveva già capito nell’ormai lontano 1964:
[…] la radio – aiutata in questo dal disco –
ponendo a disposizione di tutti una enorme quantità di musica già “confezionata”
e pronta per il consumo immediato, ha scoraggiato quelle pratiche di esecuzione
autonoma che caratterizzavano gli appassionati, i dilettanti musicalmente
sensibili dei secoli scorsi; ha inflazionato l’ascolto musicale abituando il
pubblico ad accettare la musica come complemento sonoro delle proprie attività
casalinghe, a tutto scapito di un ascolto attento e criticamente sensibile,
portando infine a una assuefazione alla musica come colonna sonora della
propria giornata, materiale d’uso che agisce più sui riflessi, sul sistema
nervoso, che non sulla immaginazione e sull’intelligenza[6].
Oggi con
l’evoluzione di internet la musica «pronta per il consumo immediato» abbraccia
pressoché l’intera produzione mondiale. Con un semplice smartphone chiunque può
riprodurre in pochi secondi una canzone, banalmente digitandone il titolo. Si
trova davvero di tutto, compresi i principali canti del fascismo. Qui però occorre
maggiore precisione: ad essere pignoli – requisito imprescindibile per lo
storico – su internet non sono rintracciabili proprio tutte le canzoni del
Ventennio. Incrociando i dati con i canzonieri più ricchi e rigorosi, risultano
subito evidenti diverse lacune (ma anche, va detto, alcuni casi di canti
presenti in rete ma non documentati sui libri). I brani più celebri, ad ogni
modo, si trovano senza problemi, e nel complesso si tratta di un repertorio
piuttosto ampio. Per le ragioni sin qui esposte, le pagine che seguono prendono
in esame questi brani (in totale ne ho selezionati 120), disponibili per
l’ascolto immediato, a portata di clic, tanto per intenderci. La scelta, lo ribadisco,
è motivata dal desiderio di fornire uno strumento ai “consumatori”, a coloro
cioè che vanno in cerca della musica, non di un nudo testo scritto,
interessante solo per la ristretta cerchia degli studiosi.
Voglio essere
chiaro su questo punto, a costo di apparire ripetitivo. Il mio libro non
intende ricostruire la storia dei singoli canti, ed essenzialmente per due
ragioni. La prima, ovvia, è che questo lavoro è già stato svolto, ancorché non
sempre con ottimi risultati. Al riguardo, è doveroso aprire una parentesi
bibliografica. Per quanto concerne la saggistica postbellica, il canzoniere più
ricco tra quelli fino ad oggi pubblicati è contenuto in due corposi volumi di Giacomo
De Marzi, dedicati rispettivamente al periodo fascista fino al crollo del 25
luglio 1943 e alla fase della Repubblica Sociale Italiana[7].
Imprescindibile è altresì l’ormai datato – ma molto ben documentato – Canti dell’Italia fascista di A.
Virgilio Savona e Michele Straniero[8].
Pionieristico ma davvero pregevole è Vincere!
Vincere! Vincere! di Pietro Cavallo e Pasquale Iaccio, che tuttavia si
concentra solo sugli anni compresi tra il 1935 e il 1943[9].
Tra i lavori più recenti, inoltre,
devono essere considerati Ritmi littori
di Giovanni Curatola[10],
Faccetta nera di Giovanni Di Capua[11],
Cantando “Giovinezza” di Cristina Di Giorgi ed Emma Moriconi[12]
e soprattutto I canti del littorio di Emanuele Mastrangelo[13],
ricchissimo di informazioni e di spunti originali. Stimolanti, infine, sono il
citato Il ragazzo di Portoria di
Piero Palumbo (che non contiene un’antologia di testi ma fornisce una valida
visione d’insieme) e i lavori di Antonio Castellani[14],
che offrono uno spaccato della storia d’Italia tra gli anni Venti e Quaranta
raccontato attraverso le canzoni (non solo fasciste).
Volutamente
tralascio di menzionare in questa Introduzione
i lavori risalenti all’epoca fascista: essi, va da sé, sono fondamentali per ricostruire
la genesi dei singoli brani, ma siccome non è questo il mio intento ho preferito
soffermarmi sui titoli più recenti, facilmente reperibili per il lettore
eventualmente interessato a documentarsi su un maggior numero di canti. Per la
stessa ragione segnalo quattro utilissimi siti internet: quello dell’Istituto
Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi (ente subentrato alla vecchia
Discoteca di Stato), dove è possibile consultare un archivio digitale, che
tuttavia permette la riproduzione solamente dei primi trenta secondi di ogni
brano[15];
il sito di Canzone Italiana (collegato all’ICBSA), che consente l’ascolto
online del patrimonio sonoro di un secolo di canzone italiana, dal 1900 al 2000[16];
il sito dell’Associazione culturale Lorien, ricchissimo di testi[17];
e infine il blog Canti per la Riscossa Europea, contenente la trascrizione di centinaia
di brani, spartiti originali e link per ascoltare numerosi canti[18].
Una menzione a
parte, infine, merita il recente ed eccellente lavoro di Franco Mesturini[19],
che raccoglie ben 287 copertine di edizioni musicali dal 1919 al 1945.
Come il
lettore potrà facilmente verificare – se avrà voglia di farlo –, le discrepanze
tra tutti questi canzonieri sono numerose. Non è infrequente, infatti, che un
singolo brano sia trascritto in modo errato, con piccole inesattezze o veri e
propri strafalcioni. E non è tutto: anche le registrazioni reperibili online
talvolta risultano inattendibili. Come uscire dall’impasse? Per mia enorme fortuna, uno dei massimi esperti
dell’innodia fascista, Pier Giorgio Angioni, ha messo a mia disposizione decine
di documenti dell’epoca, compresi moltissimi spartiti originali. A questi
ultimi, pertanto, ho inevitabilmente fatto riferimento per fugare i dubbi.
Tornando allo scopo del presente volume, la seconda ragione per cui non ho voluto ricostruire la genesi di ogni singolo canto è che a me interessa proporre un approccio per argomenti, al fine di indagare nel loro complesso le strategie comunicative, i miti e la propaganda del regime. Il criterio di organizzazione dei capitoli è pertanto tematico, non cronologico. Concretamente, ho suddiviso il lavoro in nove sezioni, con l’aggiunta di un’Antologia – nella quale ho raccolto i testi dei canti citati – e di un’appendice contenente le copertine degli spartiti che sono riuscito a reperire. L’esperimento è potenzialmente rischioso dal momento che non è stato facile resistere alla tentazione di “tagliare corto” nella gestione di una mole documentaria non ingente ma sfuggente; tanto più che glissare su alcuni brani avrebbe semplificato il lavoro di esegesi, e in qualche caso reso più organica l’interpretazione. Ma le scorciatoie, ancorché allettanti, sono sempre insidiose per lo studioso del passato. Ho preferito, pertanto, trattare ogni argomento in modo esaustivo, talvolta a scapito della scorrevolezza dell’esposizione, nella convinzione di aver raggiunto comunque un valido compromesso. Naturalmente ciò non significa che abbia sviscerato tutte le tematiche possibili, né che abbia analizzato tutti i canti disponibili: in breve – tenendo ferma la volontà di non appesantire oltremodo una trattazione che vuole essere divulgativa –, ho fatto delle scelte sulla base di valutazioni che mi auguro il lettore possa condividere.
Il risultato finale è quello che potrebbe definirsi un vademecum per l’ascoltatore interessato ad andare oltre la superficie dei canti. Essi infatti sono la conseguenza di un’ideologia articolata, nonché il frutto di una propaganda che, con il privilegio del senno di poi, sarebbe un errore bollare come grossolana. La stessa sopravvivenza delle canzoni fasciste, del resto, dovrebbe far riflettere: significa che qualcosa è rimasto, seppur filtrato attraverso i cento anni che ci separano dalla presa del potere di Benito Mussolini. Come sottolinea Emanuele Mastrangelo, ancora «oggi chiedere ad un uomo del popolo, ad una persona comune un riferimento, un cenno al Fascismo, spessissimo vorrà dire sentirsi fischiettare Faccetta nera»[20]. Il che non pare affatto un dettaglio di poco conto.
[1] Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=ey7XkixBD7k.
[2] Si vedano, per esempio, «i successi di Technobalilla,
un gruppo che ha realizzato versioni ballabili, da spiaggia, di quel drammatico
ma gustoso e ricco repertorio» (G. Accame, Prefazione
a P. Palumbo, Il ragazzo di Portoria. La
canzone italiana durante il fascismo, De Ferrari, Genova 2006, p. 7).
[3] Cfr. M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza,
Roma-Bari 2010 (prima edizione 1996); si veda in particolare il saggio di
Emilio Franzina, Inni e canzoni, pp.
161-208.
[4] Cfr. L. Donati, E
il regime censurò perfino “Faccetta nera”, in «Patria indipendente», 24
giugno 2007, pp. 46-47.
[5] Cfr. G. Borgna, Storia
della canzone italiana, Mondadori, Milano 1992, p. 10.
[6] U. Eco, Apocalittici
e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa,
Bompiani, Milano 1994 (prima edizione 1964), pp. 310-311.
[7] G. De Marzi, I
canti del fascismo, Fratelli Frilli Editori, Genova 2004; Id., I canti della Repubblica di Salò,
Fratelli Frilli Editori, Genova 2005.
[8] A. V. Savona, M. L. Straniero, Canti dell’Italia fascista (1919-1945), Garzanti, Milano 1979.
[9] P. Cavallo, P. Iaccio, Vincere! Vincere! Vincere! Fascismo e società italiana nelle canzoni e
nelle riviste di varietà 1935-1943, Ianua, Roma 1981 (seconda edizione:
Idd., Vincere! Vincere! Vincere! Fascismo
e società italiana nelle canzoni e nelle riviste di varietà (1935-1943),
Liguori, Napoli 2003).
[10] G. Curatola, Ritmi
littori. Rivisitazione del fenomeno fascismo attraverso la sua produzione
canora (con i testi di 263 canti), Aurora, Stradella 2002.
[11] G. Di Capua, Faccetta
nera. Canti dell’ebbrezza fascista, Scipioni, Valentano 2000.
[12] C. Di Giorgi, E. Moriconi, Cantando “Giovinezza”, Ritter, Milano 2016.
[13] E. Mastrangelo, I
canti del littorio. Storia del fascismo attraverso le canzoni, Lo scarabeo,
Bologna 2006.
[14] Cfr. A. Castellani, Quando amore faceva rima con cuore… Piccola storia d’Italia fra le due grandi guerre rivisitata attraverso le canzoni, UniversItalia, Roma 2017 e Id., Ciao biondina, è giunta l’ora… L’Italia nella Seconda Guerra Mondiale raccontata attraverso le canzoni, UniversItalia, Roma 2018.
[15] http://www.icbsa.it/index.php.
[16] http://www.canzoneitaliana.it/.
[17] http://www.aclorien.it/.
[18] https://cantiperlariscossaeuropea.blogspot.com/.
[19] F. Mesturini, Otto milioni di canzonette. 1919-1945. L’epopea fascista nelle sue canzoni, Il Maglio, Solarussa 2021.
[20] E. Mastrangelo, I
canti del littorio, cit., p. 204.
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