mercoledì 21 giugno 2023

In sella a Ronzinante. Storia e mito di Ernesto Che Guevara





Introduzione del mio libro In sella a Ronzinante (Il Fiorino 2020)




Io sono fatto per rompere i coglioni a mezza umanità, e l’ho giurato; sì! ho giurato per Cristo! di consacrar la mia vita all’altrui perturbazione, e già qualcosa ho conseguito, ed è nulla a paragon di ciò che spero, se mi lasciano fare, o se non possono impedirmi di farlo!

 G. Garibaldi – Lettera a G. B. Cuneo

 

 

 

 

Questo libro trae origine da altri libri. Detta così potrà sembrare un’affermazione ovvia, riferibile pressoché ad ogni volume di storia. Ma ciò che intendo dire è che il mio lavoro si fonda esclusivamente su fonti di natura letteraria: biografie, saggi, memorie, diari e, ovviamente, gli scritti di Ernesto Guevara de la Serna.

Trovo doveroso precisare sin da subito questo aspetto perché è bene che il lettore sappia che non ho visionato documenti originali, non ho visitato l’Argentina, Cuba o la Bolivia e non ho potuto intervistare testimoni. Chi fosse perciò interessato a nuove scoperte, a rivelazioni o a scoop giornalistici, può tranquillamente risparmiarsi la fatica di proseguire con la lettura. Non ho infatti la pretesa di competere con i grandi biografi del Che, che hanno speso anni nella ricerca, consultando archivi e intervistando familiari e vecchi compagni d’armi del rivoluzionario argentino. Anzi, alle decine di studiosi che con i loro libri hanno occupato per mesi la mia scrivania sono debitore, perché è riflettendo sul loro lavoro che ho intrapreso il mio percorso di ricerca.

Ci si chiederà, a questo punto, quale sia lo scopo del presente volume. Fondamentalmente, esso si prefigge l’obiettivo di fare chiarezza, per quanto possibile, sul mito del Che, a partire dalla sua biografia. Il tutto tenendo conto della compresenza di due aspetti singolari: da un lato la diffusione planetaria dell’immagine iconica del Guerrigliero Eroico, e dall’altro un sempre più manifesto disinteresse per l’uomo Guevara. È facile infatti constatare quanto la vita del medico argentino sia oggigiorno relativamente poco conosciuta (forse anche in conseguenza della sua scarsa presenza in televisione, nei programmi di divulgazione storica); e al contempo è semplice verificare che il volto del Che è ovunque, tatuato sul polpaccio di un calciatore o impresso su magliette e manifesti.

Punto di partenza obbligato di un simile percorso non poteva che essere la vita di Guevara, che ho ricostruito consultando una vasta bibliografia, disponibile in lingua italiana. Non è stato per nulla semplice trovare un punto d’incontro tra versioni spesso contrastanti, così come ha richiesto una certa attenzione l’inevitabile operazione di sintesi rispetto a biografie che in un paio di casi sfiorano o superano le mille pagine. Una caratteristica comune a diversi studi sul Che (prodotti al di fuori dell’ambito accademico) è inoltre la mancanza di note bibliografiche e di indici dei nomi: circostanza che, va da sé, ha complicato in certi casi il mio lavoro. Di contro, mi sono stati di grande aiuto la biografia di Roberto Occhi (dettagliata ma allo stesso tempo decisamente più sintetica rispetto a quelle “monumentali” di Jon Lee Anderson, Jorge G. Castañeda, Pierre Kalfon e Paco Ignacio Taibo II) e i lavori di Roberto Massari, massimo studioso italiano del Che, animatore della Fondazione Ernesto Che Guevara, cui, ad oggi, si deve la pubblicazione di dieci Quaderni, imprescindibili per chiunque intenda accostarsi alla vita e alle opere del rivoluzionario argentino[1].

La biografia del Che occupa l’intero primo capitolo di questo volume. Ho ritenuto saggio non darla per scontata, essenzialmente per due ragioni: perché ho la sensazione che in pochi la conoscano a fondo; e soprattutto perché ricostruirla ha reso più organico e coerente il mio lavoro, che è mia convinzione non possa prescindere da un’attenta riflessione sull’uomo Guevara. Se è vero infatti che il Che è oggi poco letto e studiato, devo riconoscere che pure io non facevo granché eccezione prima di accingermi a scrivere questo libro. Certo, sapevo collocare il medico argentino nel tempo e nello spazio, associarlo alla Rivoluzione cubana e alle fallite imprese in Congo e Bolivia; ma, concretamente, avevo letto poco su di lui (tra le biografie mi era capitato di sfogliare anni fa quella di Carlo Batà, utilizzata per scrivere un articolo che oggi, per inciso, imposterei in maniera completamente diversa[2]).

Studiare la vita del Che significa automaticamente dover affrontare il problema della sua morte, che è all’origine del mito. Per questo il secondo capitolo si apre di fatto in continuità con il primo, ripercorrendo le vicissitudini della salma di Guevara da La Higuera fino a Santa Clara, dove riposa dal 1997. Da qui parte l’analisi vera e propria del mito (sviluppata nei paragrafi 2, 3 e 4 del capitolo 2 e condotta da prospettive non convenzionali nel capitolo 3), in accordo con quanto sostenuto alcuni anni fa da Gianpasquale Santomassimo:

 

Tutto nella vita di Ernesto Guevara de la Serna sembra assumere a posteriori la forma del mito. Il viaggio giovanile in moto compiuto con il suo amico e compagno di studi Alberto Granado dall’Argentina al Venezuela […] viene riscoperto cinquant’anni dopo come un viaggio iniziatico, presa di coscienza dei mali e delle ingiustizie di un continente. È soprattutto il film di Walter Salles I diari della motocicletta (2004), prodotto da Robert Redford e ispirato dai diari di viaggio […] dello stesso Guevara e […] di Alberto Granado, che segna la novità più importante degli ultimi anni nella evoluzione di un mito ormai consolidato e stabile, ma soggetto a mutazioni che nel tempo aggiungono e sottraggono, accentuano e sfumano, fino a trasformare il senso originario del mito. Un mito sul quale bisogna interrogarsi, perché è l’unico mito residuo che il ’900 trasmette al nuovo secolo, ed è soprattutto l’unico mito della sinistra novecentesca che anziché sfiorire rinvigorisce e sembra parlare ancora alle nuove generazioni[3].

 

Al film di Walter Salles va aggiunto quello in due capitoli (Che. L’argentino e Che. Guerriglia) di Steven Soderbergh del 2008, che ricostruisce le tappe della Rivoluzione cubana e il tragico epilogo boliviano, presentato come una sorta di Via Crucis[4].

Il “successo” cinematografico del Che si accompagna ad una nutrita presenza sugli scaffali delle librerie. Di recente, nel biennio del duplice cinquantenario della sua morte e del Sessantotto, Guevara ha spesso trovato posto tra le proposte editoriali nelle edicole, o addirittura sui banchi di certi supermercati.

A fronte di questa innegabile e sorprendente popolarità, ciò che tuttavia colpisce è la percezione, condivisa da diversi studiosi, che il mito di Guevara stia progressivamente svuotandosi di contenuti per lasciare spazio ad un’icona pop, commerciale e pubblicitaria. Per riprendere le parole di Santomassimo, è vero che il Che continua a parlare alle nuove generazioni, ma lo fa in modo semplificato e banalizzato rispetto ad un tempo, attraverso un dialogo che tiene in scarsa considerazione l’originario significato del mito.

Una spiegazione plausibile, a mio avviso, va ricercata nell’inat­tualità dell’“autentico” Che. Se infatti c’è una costante nella biografia di Guevara, essa è un qualcosa che oggi – con il consolidamento della società del benessere e dei consumi – puzza di stantio. Valori quali l’enorme spirito di sacrificio e la dedizione assoluta ad una causa, uniti ad un fanatismo violento e tragico e alla voglia di cambiare realmente il mondo (con i fatti, non a parole), sono quanto di più estraneo si possa concepire rispetto alla nostra mentalità consumistica ed individualista.

Scrive Guillermo Almeyra:

 

Il coraggio e la decisione rivoluzionaria del Che molte volte si trasformavano persino nel disprezzo del pericolo e in una sfida alla morte.

Il Che si era formato nella lotta contro le limitazioni della sua malattia e dell’ambiente e la sua volontà di dare tutto di sé aveva molto di spagnolo e di cristiano, di aristocrazia dello spirito di fronte al calcolo, alla meschinità, all’individualismo. Il Che si era formato nell’altruismo, nella dedizione ai poveri e, in questo senso, sfuggiva alla mediocrità piccolo-borghese con un atteggiamento che pareva eccezionale e aristocratico, o anche romantico, ma che preannunziava l’uomo nuovo che si sforzava di far nascere attraverso la rivoluzione. Molti problemi nei rapporti con altri dirigenti cubani vengono, appunto, da questa nobiltà del carattere, che apparteneva ad altri tempi, al passato o al futuro, e da questa serietà e coerenza derivata dal senso della brevità della vita e del desiderio di testimonianza, che erano difficili da imitare[5].

 

È interessante questa riflessione sul carattere di Guevara, che appartiene «ad altri tempi» in quanto «aristocrazia dello spirito di fronte al calcolo». Ed è proprio questa la ragione per cui il mito del Che risulta oggi tutto sommato depotenziato: perché è un mito scomodo, impegnativo, eroico; un autentico cazzotto nello stomaco per chi lo esibisce solo per rivendicare diritti senza essere disposto ad accettare alcun dovere.

In fondo, a ben vedere, Guevara è difficile da digerire perché è uno sconfitto della storia. E i perdenti, se è vero che affascinano per la loro capacità di suscitare romantica ammirazione, risultano allo stesso tempo minacciosi, dal momento che sono accompagnati passo passo dallo spettro della morte. Lo stesso Notas de viaje da cui è tratto il film di Walter Salles termina con la significativa profezia di uno sconosciuto, pronunciata nel corso di un incontro notturno con il giovane Ernesto: «lei morirà con il pugno chiuso e la mascella serrata, in una perfetta rappresentazione dell’o­dio e della lotta, perché non è un simbolo (qualcosa di inanimato che si prende come esempio), lei è parte integrante della società che sta crollando»[6].

Diversi anni dopo, all’indomani dell’esecuzione del Che, scriveva Franco Cardini:

 

L’Avventuriero combatte sempre contro i mulini a vento. Il suo vero fine, la sua profonda Verità, la sua intima vocazione, è il Nulla. È lì che finiscono i guerrieri omerici, i cavalieri arturiani, i samurai, i «proscritti» di von Salomon. Il cavallo di don Chisciotte non porta da nessuna parte. E il dottor Guevara lo sapeva benissimo […][7].

 

Oggi sono sempre meno le persone disposte a montare sul cavallo di don Chisciotte. Si tratta di una constatazione, non necessariamente di un giudizio su un’epoca. I valori non sono mai eterni: alcuni resistono più a lungo, altri svaniscono nel corso di una generazione. Ed è sempre complicato soppesare obiettivamente se ciò che si guadagna compensa adeguatamente ciò che si perde. Del resto il punto non è questo: la cosa importante è capire il mondo nel quale si è costretti a vivere, studiarne i miti, perché il mito – ossia il modo in cui viene raccontata e il perché viene raccontata una determinata storia – è in realtà lo specchio migliore che abbiamo a disposizione per capire chi siamo (o pretendiamo di essere).

In quest’ottica, Guevara parla oggi sottovoce ai pochi don Chisciotte che ancora accettano di montare in sella a Ronzinante; e non ha forse nemmeno più la pretesa di intercettare le grandi masse, che non sanno che farsene dell’e­roismo guerriero, dello sprezzo ostinato del pericolo, della coerenza granitica e del rifiuto della logica del calcolo. Quello del Che, a ben vedere, è forse sempre stato un mito per pochi: un mito aristocratico – come giustamente sottolinea Almeyra – del tutto incompatibile con la «mediocrità piccolo-borghese».

È questo, in definitiva, l’obiettivo che mi sono prefisso: studiare un mito universale ma ormai povero di contenuti, partendo dalla personale convinzione – innegabilmente affascinante – che avvicinarsi seriamente a Ernesto Guevara significhi farsi pecora nera in un gregge di pecore bianche. Il libro che ho scritto, di conseguenza, è anche il frutto di un dialogo con me stesso, oltre che un confronto con un personaggio storico con il quale sentivo di dover fare i conti.

Il Che Guevara che emerge da queste pagine è pertanto un eroe complesso, ostico, inafferrabile, impossibile da etichettare. La forza del mito risiede forse proprio nella sua poliedricità, nella sua capacità di attrarre persone e mondi lontani, come documentato da decine di studiosi. Esiste il Che rivoluzionario marxista; il Che eroe tragico, tratteggiato da Giovanni Sole; il Che eroe cristiano, studiato a fondo da Giulio Girardi; il «Chesucristo» di David Kunzle; il Che venerato come un santo dai contadini boliviani; il Che cavaliere errante della destra militante; il Che mercificato delle magliette, fagocitato dal capitalismo. Ed esiste persino un antimito del Che, confezionato ad arte da certa pubblicistica che pretende di rivelare con toni sensazionalistici la «storia sconosciuta del mitologico mercenario argentino»[8].

Guevara può essere molte cose. In questo libro – che dedico ai miei figli Anita e Pietro, con l’augurio che un giorno possano trarne qualche utile insegnamento – mi sono sforzato di capirlo, osservandolo da molteplici prospettive. La sfida è stata quella di riunire in un solo volume i diversi aspetti del mito, per offrire una trattazione il più possibile esaustiva. Mi piace pensare a queste pagine come a un ponte verso altre letture: perché il Che, a chi accetta di sgombrare la mente da assurdi pregiudizi, ha ancora molte cose da dire.



[1] Per i riferimenti bibliografici di questa Introduzione – per semplicità non sempre specificati – rimando alle note a piè di pagina e alla Bibliografia in fondo al volume.

[2] Cfr. L. Malavasi Pignatti Morano, Lunga vita a Che Guevara, ma non ai guevariani!, in «Prima Pagina», 27 luglio 2014.

[3] G. Santomassimo, Che Guevara, il mito da un secolo all’altro, in «Passato e presente», n. 74, 2008, p. 5.

[4] Cfr. D. Kunzle, Chesucristo. La fusione in immagini e parole tra Guevara e Gesù, a cura di Roberto Massari, Massari, Bolsena 2016, p. 315. Il libro di Kunzle costituisce il decimo volume dei Quaderni della Fondazione Ernesto Che Guevara.

[5] G. Almeyra, La riscoperta del Che, in G. Almeyra, E. Santarelli, Che Guevara. Il pensiero ribelle, Giunti, Firenze-Milano 2006, pp. 52-53.

[6] E. Che Guevara, A. Granado, Latinoamericana. Due diari per un viaggio in motocicletta, a cura di Pino Cacucci, Gloria Corica e Roberto Massari, Feltrinelli, Milano 1993, p. 120.

[7] F. Cardini, Il cavallo di don Chisciotte, in Id., Scheletri nell’armadio. Vecchie e nuove prove di terrorismo intellettuale, Akropolis-La roccia di Erec, Firenze 1995, p. 321.

[8] Cfr. L. Facco, Che Guevara. Il comunista sanguinario, goWare-Tramedoro, Firenze-Bologna 2020, frase in copertina.

Nessun commento:

Posta un commento

Uve modenesi tra XVIII e XIX secolo. Confronto sinottico tra il censimento di uve di Francesco Pincetti (1752) e quello di Francesco Aggazzotti (1867)

  Introduzione del libro Uve modenesi tra XVIII e XIX secolo , scritto a quattro mani con Gian Carlo Montanari (Il Fiorino 2018) Questo libr...