venerdì 23 giugno 2023

Uve modenesi tra XVIII e XIX secolo. Confronto sinottico tra il censimento di uve di Francesco Pincetti (1752) e quello di Francesco Aggazzotti (1867)

 






Introduzione del libro Uve modenesi tra XVIII e XIX secolo, scritto a quattro mani con Gian Carlo Montanari (Il Fiorino 2018)



Questo libro nasce da un’intuizione di Gian Carlo Montanari, sempre attento ed abile a scovare curiosità e aneddoti di storia modenese. Ricordo che mi sottopose il suo progetto di lavoro all’incirca due anni fa: si trattava, nelle sue intenzioni, di confrontare il Catalogo delle uve di Francesco Aggazzotti (scritto del 1867) con un baccanale settecentesco dell’abate Francesco Pincetti, per mettere in risalto alcuni sorprendenti punti di contatto tra due opere tra loro così diverse e distanti nel tempo.

Come mi chiarì Montanari, l’obiettivo era offrire al lettore appassionato di vini e di storia locale uno spunto di riflessione molto preciso, racchiuso in sostanza in una semplice domanda: possibile che l’Aggazzotti, celebre viticoltore ottocentesco, primo sindaco di Formigine nella storia dell’Italia unita, per la stesura del suo Catalogo avesse utilizzato come fonte – forse addirittura come fonte primaria – un poemetto giocoso intitolato ai Vini modanesi, opera curiosa, a tratti spassosa, ma certo non di pregevole valore letterario?

A partire da questo interrogativo, il libro prese immediatamente forma nelle nostre menti. Montanari si sarebbe occupato del Pincetti, ed io dell’Aggazzotti. Occorreva, per prima cosa, presentare al lettore un profilo esauriente di queste due figure, al fine di poterle agevolmente collocare nel tempo e nello spazio. Nulla di particolarmente impegnativo, si badi: semplicemente un doppio ritratto, indispensabile per contestualizzare gli scritti che sono al centro della nostra trattazione.

Rispetto a questi ultimi, decidemmo di riportare integralmente solo il baccanale pincettiano, essenzialmente per la ragione che, trattandosi di un testo letterario, costituisce certamente una lettura più piacevole rispetto al trattato scientifico dell’Aggazzotti. Per facilitare la comprensione del poemetto, ci accordammo inoltre per la stesura di alcune note esplicative.

Per finire, stabilimmo che il Catalogo dell’Aggazzotti sarebbe stato approfondito nell’ultimo capitolo, dedicato al confronto tra le uve elencate dal formiginese e quelle citate dal Pincetti.

Questa, in definitiva, la gestazione del lavoro che qui si presenta. Ritengo doveroso chiarire che l’idea e l’impostazione che sono alla base di questo libro vengono da Montanari, cui va senza dubbio la maggior parte del merito per la riuscita finale dell’opera. Sono suoi – esclusivamente o in gran parte – i capitoli 1, 3 e 4; mentre è mio il capitolo 2. Pur essendo ovviamente presente la mano di entrambi nella stesura e nella revisione, avverto l’obbligo morale di “dare a Cesare quello che è di Cesare”, come si usa dire.

Concludo pertanto queste brevi note introduttive ringraziando di cuore Gian Carlo per avermi voluto al suo fianco nell’elaborazione e nella stesura di questo studio, fermo restando che la mia gratitudine nei suoi confronti risale ormai a diverso tempo fa. Ero fresco di laurea in storia, quando mi contattò per sottopormi un suo libro per una recensione su «Prima Pagina», quotidiano per il quale curavo una rubrica storico-letteraria. Ci conoscemmo così. Da allora ha sempre letto con interesse i miei scritti, segnalandoli ad enti, istituti e persone che difficilmente avrei potuto contattare senza la sua mediazione. Per tutto questo gli sarò sempre riconoscente.

 

Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

 

L’uva, le uve, i vini. Un tema affascinante che abbraccia la maggior parte della cultura del nostro splendido e martoriato (colpa nostra) pianeta, e cioè viene dagli albori della coscienza civile dell’umanità. Poi ci sono le vicende particolareggiate delle varie culture e siccome qui si parlerà alla fine soprattutto del territorio modenese, ci basta un accenno (proprio un piccolo accenno) alle culture ebraica, cristiana e latina. Di vino si parla nella Bibbia (Antico Testamento: ricordate Noè che prende una formidabile sbornia che gli farà maledire un figlio irrispettoso?[1]), e soprattutto si giunge alla divina figura di Gesù Cristo (Nuovo Testamento) che nell’Ultima Cena consuma coi suoi il pasto comunitario con pane e vino e dà l’ostia consacrata, centro irradiante di tutto il cristianesimo. E ci sarebbero nelle due parti del libro sacro ebraico-cristiano altre citazioni in cui l’uva la fa da protagonista.

Di vino è poi pregna la cultura greca che si fece addirittura un dio del vino (Dioniso-Bacco) e che del vino fa il centro-motore dei riti dionisiaci che uniscono sacro e profano. Poi ci sono gli eredi della grecità, i Romani; tutta una enorme sedimentazione di cultura latina che giunge fino a noi con l’attenzione costante all’agricoltura, e basti pensare al grande Virgilio[2] delle Georgiche e quindi soprattutto al Libro Secondo di esse ove tratta della coltivazione degli alberi; mentre i romani che accennarono al mondo delle uve sono tanti e bisognerebbe dire anche di Marco Porcio Catone (234-149 a.C.), di Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), di Columella (4-70 d.C.) e di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.)[3].

E se il vino può essere una grande medicina, all’opposto esiste un capitolo interessante nella storia del prodotto delle uve cui vogliamo, per la sua forza curiosa, qui accennare, ed è quello che mostra come, oltre a Bacco (e al Baccone che il poeta di corte modenese settecentesco Pincetti prenderà a guida per dire delle uve modenesi), ci siano stati nella storia tanti esagerati consumatori del buon lico, come viene definito in generale il vino. Ci furono formidabili bevitori passati alla storia (o leggenda), a iniziare da quel Milone di Crotone, celebre atleta che consumava in modo esagerato carne (che gli dava forza) e per questo beveva, pare, dieci litri di vino al giorno! Ancora diciamo di tre bei soggetti quali furono l’ateniese Diotimo detto l’Imbuto (!), il tarantino Filonide detto Quartino (!!) e (last but not least, perché il prodotto delle uve accomuna le passioni di uomo e donna) una rappresentante del gentil sesso, la cortigiana Gnatena che era indicata col soprannome di Cisterna (!!!).

Per finire questa breve ricognizione, ricordiamo che ad Alessandro il macedone (Magno) fu fatale una gran bevuta di vino schietto, mentre il romano Marco Antonio si auto condannò con la sua Cleopatra proprio gozzovigliando e bevendo smodatamente e perciò abbandonando i rigidi ma sani costumi dei severi e accorti avi.       

E veniamo al Medioevo: qui possiamo stringere il cerchio dei ragionamenti e disquisire del territorio padano che su vini, maiale e formaggi ha costruito buona parte delle sue fortune di sostentamento e di sviluppo economico. Tanto per dire di significati del bere padano, si può indicare un grande cronista del XIII secolo, un acuto e attento frate che è noto come Fra’ Salimbene de Adam da Parma (1221-1288 ca.), che nella sua Cronaca a un certo punto riporta:

 

E mastro Morando, che insegnava grammatica a Padova, ha scritto le lodi del vino secondo i suoi gusti con questi versi:

Vinum dulce gloriosum

pingue facit et carnosum

atque pectus àperit.

(Il vino dolce glorioso / rende pingue e carnoso / e sgombera il petto).

Et maturum, gustu plenum,

valde nobis est aménum

quia sensus àcuit.

(E maturo, pieno di sapore, / ci riesce assai gradevole, / perché acuisce i sensi).

Vinum forte, vinum purum

reddit hominem securum

et depellit frìgora.

(Il vino forte, il vino puro / rende l’uomo sicuro / e scaccia i brividi).

Sed acerbum linguas mordet,

intestina cuncta sordet

currumpendo corpora.

(Ma l’aspro le lingue morde / le interiora sporca / corrompendo i corpi).

Vinum vero quod est glàucum

potatorem facit ràucum

et frequenter mingere.

(Il vino che è di colore verdicchio / fa diventare rauco il bevitore / e lo fa orinare spesso).

Vinum vero turbulentum

solet dare corpus lentum

et colorem tingere.

(Il vino poi che è torbido / di solito rende pigro il corpo / e lo rende colorito).

Vinum rubeum subtile

non est reputandum vile,

nam colorem generat.

(Il vino rosso sottile / non è da reputarsi vile / perché genera colore).

Auro simile citrinum

valde fovet intestinum

et langores suffocat.

(Quello color limone simile all’oro / aiuta molto l’intestino / e soffoca i languori).

Alba lìmpha maledicta

sit a nobis interdicta,

quia splenem pròvocat.

(La linfa bianca maledetta / sia da noi interdetta / perché irrita la milza)[4].

 

Se volete, bazzecole, rispetto a ciò che di uve e vini si può dire, ma testimonianze di come in pieno Basso Medioevo i dotti di vino s’intendevano e discettavano. Ora, se questo è un singolare documento duecentesco, aggiungiamo che tanta opera di Salimbene accenna alle viti e ai prodotti vinicoli, e poi sappiamo che avanti nel tempo, tra fine Medioevo e inizi dell’Era Moderna, le cronache delle varie città e paesi della Padania sono cariche di accenni alle raccolte delle uve[5]. Il prodotto che per tante generazioni era stato curato e selezionato divenne da noi, come nel resto d’Italia e in tante parti d’Europa, una sinfonia di uve selezionate e in grado di fornire diversi e prelibati vini.

Per giungere alla nostra prima riflessione sull’opera settecentesca che fornì l’abate Francesco Pincetti, il quale la pubblicò, come diremo parlando di lui, nel 1752; per arrivare infine ad apprezzare non tanto un Baccanale (I vini modanesi), quanto come in questo testo il Pincetti abbia formato un’opera di puro diletto generata dal fatto che (probabilmente per mezzo dei lasciti dei suoi avi feudatari di Magreta per conto degli Este) l’abate si divertì, con i manoscritti che trattavano di uve. Manoscritti che riteneva giustamente preziosi e che gli fornirono l’estro (sulla scia di quanto nel suo secolo spesso gli eruditi facevano) per esaltare un prodotto della natura (l’uva, le uve), ma anche risultato dell’ingegno elaboratore degli uomini (i diversi vini frutto di sapienti osservazioni e innesti).

Questo l’intento del semplice (sia dal punto di vista artistico che da quello degli scopi) Baccanale dell’abate Francesco Pincetti; ma poi, a distanza di poco più d’un secolo dall’uscita del suo lavoro anonimo (che rischiò di non essergli mai attribuito), ecco che nel 1867 un vero e scientifico intenditore di uve, il possidente Francesco Aggazzotti (1811-1890), compie un’operazione di autentica catalogazione delle uve da lui prodotte e ci lascia un’opera (Catalogo descrittivo delle principali varietà di uve coltivate presso il Cav. Avv. Francesco Aggazzotti del Colombaro) che sembra il seguito di quella settecentesca del Pincetti che aveva sì scritto in poesia, ma, citando una settantina di uve, aveva visto al meglio esplicitato il suo lavoro per mezzo delle Annotazioni  di un collaboratore contemporaneo, il sassolese Niccolò Caula[6], che di ognuna delle uve citate diede un breve resoconto qualitativo.

Ordunque, il Baccanale pincettiano nomina le uve, e le note del Caula spiegano il valore e le qualità di esse, mentre poi un abbondante secolo dopo un tecnico-amatore appassionato come l’Aggazzotti compirà un’operazione di autentica catalogazione di settanta uve e ne comprenderà trenta di quelle nominate a suo tempo da Pincetti-Caula. L’operazione che noi in pieno XXI secolo proponiamo è il confronto dei due lavori con un esame comparato che ci pare interessante. Le uve e i vini da essi producibili sono un rimando dal passato a noi oggi, a circa due secoli e mezzo dal lavoro pincettiano e a un centinaio e mezzo d’anni da quello del saggio aggazzottiano. Al lettore consegniamo alcune nostre sistemazioni e considerazioni. 

 

Gian Carlo Montanari



[1] Si veda in Genesi, 9, 20-27.

[2] Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), il maggior poeta latino.

[3] Catone scrisse il più antico libro di prosa latina a noi giunto, il De Agricoltura; Varrone scrisse molti testi; Columella è un classico; Plinio il Vecchio fu storico e naturalista.

[4] Salimbene de Adam da Parma ci ha lasciato una splendida Cronaca di cui qui citiamo l’edizione di un confratello novecentesco ora scomparso, padre Berardo Rossi (Radio Tau, Bologna, 1987).

[5] Basti qui, per il modenese, citare a braccio le cronache dei due de’ Bianchi dei Lancellotti (Jacopino e Tommasino) e quella di Giovan Battista Spaccini.

[6] Apparteneva alla nota e influente famiglia sassolese che espresse anche il pittore Sigismondo proprio nell’epoca sua e dell’abate Pincetti.

Nessun commento:

Posta un commento

Uve modenesi tra XVIII e XIX secolo. Confronto sinottico tra il censimento di uve di Francesco Pincetti (1752) e quello di Francesco Aggazzotti (1867)

  Introduzione del libro Uve modenesi tra XVIII e XIX secolo , scritto a quattro mani con Gian Carlo Montanari (Il Fiorino 2018) Questo libr...