Articolo apparso su «La Pressa» il 16-6-2023
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Il tema del viaggio è una costante del repertorio musicale gucciniano. Argentina, Amerigo, Odysseus, Cristoforo Colombo, Don Chisciotte parlano tutte dell’aspirazione umana a cercare risposte oltre oceano, al di là dei confini materiali – ma anche ideali – del proprio vissuto, inseguendo affannosamente un senso, un flebile fascio di luce che delinei i contorni dell’esistenza terrena.
Gulliver si inserisce in questo canone. Uscì
nell’ormai lontano 1983, terza di sei tracce dell’album Guccini, accanto
a capolavori come Autogrill e Inutile.
L’ispirazione è letteraria: il protagonista è infatti il Gulliver di Swift,
quello delle avventure fantastiche tra giganti e nani. In passato lo si leggeva
a scuola, oggi chissà… (in tempi di alternanza scuola-lavoro si può ancora
oziare con un libro del 1726?).
Quello che incontriamo, però, è un Gulliver anziano,
prossimo alla morte, che torna coi pensieri «ai tempi in cui correva per il mare». Come ogni nonno che
si rispetti, intrattiene i nipoti con racconti del suo passato. Il ricordo
ingigantisce, enfatizza, esalta: «cambia in meglio», per dirla con i versi
gucciniani di Piccola città. Funziona così per tutti, e non c’è niente
di male. Ma Gulliver ha davvero visto cose grandiose e sbalorditive, tra
giganti, nani e persino «cavalli saggi», dotati di parola e intelligenza
sopraffina. Per i nipoti è un incanto, una favola della buonanotte; per i
vecchi amici, invece, è impossibile comprendere. «Sentiva la balbuzie
intellettuale e l’afasia di chi gli domandava per capire»: immagine
potentissima che ci restituisce il pensiero zoppicante, balbettante per
l’appunto, e l’impossibilità di esprimersi con razionalità. Ciò che il bambino
afferra nella dimensione del sogno diviene ineffabile per l’adulto, che si
scopre sordo alle parole vacue di Gulliver, «vuoti gusci» privi di significato.
Il viaggio reale diviene rivisitazione comica (o tragicomica); l’anziano esploratore
un cantastorie di cui burlarsi.
A
Gulliver non resta quindi che rivolgersi a se stesso (terza strofa, terzo
interlocutore), «ripensando a quell’incedere incalzante dei viaggi persi nella
sua memoria». E qui avviene uno sdoppiamento, filtrato attraverso il ricordo
della duplice esperienza come gigante e come nano. Se il primo può cogliere
un’opaca visione d’insieme («il senso grossolano della storia») ma perde di
vista i dettagli (è fisiologicamente disattento), il secondo si riscopre
emarginato, afflitto da una «crudele solitudine», impossibilitato a guardare
lontano. Il nano percepisce il particolare ma è sgomento nel constatare la
propria piccolezza «nell’universo quasi esagerato».
Gulliver
ha vissuto tutto questo, ha visto entrambe le facce della medaglia, gigante tra
nani e nano tra giganti. Perché in fondo l’uomo alterna queste due sensazioni,
forte della sua unica capacità di pensiero, ma allo stesso tempo incapace di
venire a capo del grande mistero dell’esistenza. Il finale – leopardiano – è
una sentenza: «da tempo e mare», con l’età e i viaggi, «non si impara niente».
Il senso sfugge, tanto al giovane quanto al vecchio, all’avventuriero come
all’abitudinario. Ahi, ahi, s’asside / su l’alte prue la negra cura, e sotto
/ ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno / felicità, vive tristezza e regna.
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