venerdì 23 giugno 2023

Camerata Garibaldi. Lo sfruttamento propagandistico del mito dell'Eroe dei due mondi nella stampa fascista modenese








Introduzione del mio libro Camerata Garibaldi (Il Fiorino 2017)



Gli italiani del XX secolo hanno ripreso tra il 1914 e il 1918 […] la marcia che Garibaldi nel 1866 interruppe a Bezzecca, col suo laconico e drammatico «Obbedisco» e l’hanno continuata fino al Brennero, sino a Trieste, a Fiume, a Zara, sul culmine del Nevoso, sull’altra sponda dell’Adriatico.

Le camicie nere che seppero lottare e morire negli anni dell’umiliazione, sono anche politicamente sulla linea ideale delle camicie rosse e del loro condottiero. Durante tutta la sua vita egli ebbe il cuore infiammato da una sola passione: l’unità e l’indipendenza della patria. Uomini, sette, partiti, ideologie e declamazioni di assemblee le quali ultime Garibaldi disdegnò, propugnatore come egli era delle «illimitatissime» dittature, nei tempi difficili, mai lo piegarono, né distolsero da questa meta suprema.

La vera, la sovrana grandezza di Garibaldi è in questo suo carattere di eroe nazionale, nato dal popolo e, in pace e in guerra, sempre rimasto col popolo. Le guerriglie d’America non sono che un preludio, Digione un epilogo. Fra i due periodi giganteggia Garibaldi, che ha un solo pensiero, un solo programma, una sola fede: l’Italia.

Benito Mussolini

 

 

Uno degli aspetti più sorprendenti del personaggio Garibaldi è senza dubbio la polivalenza politica del suo mito. Pochi leader della nostra storia più recente sono assurti a icona in modo tanto trasversale, e forse nessuno ha subito un processo di idealizzazione anche solo paragonabile a quello che ha riguardato l’Eroe dei due mondi.

«Rivoluzionario disciplinato» – come è stato definito[1] –, Garibaldi ha saputo influenzare partiti e correnti politiche sorti anche molto dopo la sua morte, diventando di fatto un punto di riferimento simbolico per i repubblicani, per i liberali e i democratici ottocenteschi, per i socialisti, per i fascisti, per i comunisti e, più in generale, per chiunque intendesse contrapporsi, in un modo o nell’altro, all’ordine costituito. Gli unici che non abbiano mai tentato una decisa appropriazione propagandistica del culto del Nizzardo sono stati i cattolici, evidentemente a disagio – per usare un eufemismo – con l’acceso anticlericalismo di un uomo che non fece mai mistero della propria avversione al papato. Ma in fondo, se si guarda con attenzione, non è del tutto vero che il mondo cattolico sia sempre stato immune dal contagio della mitologia garibaldina, se non altro per l’ovvia ragione che, a lungo andare, denigrare un eroe nazionale può risultare controproducente. Sono andati perciò in questa direzione i tentativi di “smascheramento” del Garibaldi delle sinistre nel corso della campagna elettorale del 1948, allorché la Democrazia Cristiana si vide costretta a svelare il vero volto dell’uomo la cui effigie era stata scelta da PCI e PSI quale simbolo del Fronte popolare. Tra i cattolici, in sostanza, giacché non era pensabile una acritica appropriazione del mito del Generale, si fece strada la convinzione che fosse quantomeno opportuno mettere in cattiva luce il Garibaldi “avversario”, dietro il quale si celava, in realtà, l’oscura presenza di Stalin.

Questa trasversalità non impedisce, ad ogni modo, di riconoscere alcuni tratti ricorrenti nelle varie versioni del mito dell’Eroe dei due mondi. A lungo (e in parte ancora oggi) Garibaldi è stato infatti apprezzato essenzialmente per doti umane e qualità morali – come il coraggio, l’onestà e il disinteresse per il denaro – rispetto alle quali è facile esprimere incondizionato apprezzamento. Nel Generale, in sostanza, una radicata corrente di pensiero ha voluto riscontrare l’archetipo dell’eroe “del popolo”, lontano dagli interessi materiali della politica, poco istruito ma generoso, carismatico ed in sintonia di ideali con gli “ultimi”. Garibaldi stesso – come ha messo in evidenza Lucy Riall – ebbe un ruolo di prim’ordine nella costruzione del proprio mito, assecondando – con il modo di porsi, con l’abbigliamento stravagante, con lo stile di vita forse un po’ stereotipatamente rivoluzionario – l’«ampio desiderio, tipico di quell’epoca, di eroi romantici e di storie avventurose»[2].

Nell’accrescere la popolarità del Nizzardo furono ovviamente decisive le vittorie militari, unica fonte di legittimazione politica per un uomo che, di fatto, fu al potere per soli pochi mesi, nel corso della campagna antiborbonica del 1860. Ma se queste contribuirono in modo determinante a consolidarne il mito, certamente furono le qualità morali di cui si è detto a perpetuare un’immagine accattivante di Garibaldi e a far sì che essa si diffondesse così capillarmente. Detto altrimenti, il Generale rappresentò per diverse generazioni la sintesi delle virtù che il pensare comune identificava come tipicamente italiane (o meglio: delle virtù che ogni buon italiano avrebbe dovuto possedere).

Oggi, con tutta evidenza, il mito di Garibaldi è in gran parte tramontato, come dimostrano le numerose invettive di cui è continuamente fatto bersaglio da parte – ancora una volta – dei cattolici e degli ambienti leghisti, “neoborbonici” o, più in generale, secessionisti. Anzi, non ci si discosta troppo dal vero se si afferma che il mito è stato soppiantato da un antimito, il che è comunque un fatto degno di nota, indice se non altro di una longevità che sarebbe un errore non ascrivere in parte proprio al fascino che ha circondato per tanto tempo la figura di Garibaldi. Una figura – è bene precisarlo – che ha sempre diviso, e che a dispetto di una popolarità capace di oltrepassare i confini nazionali non è mai riuscita a mettere realmente tutti d’accordo. Poi, certo: l’agiografia dell’eroe ha nettamente prevalso – specialmente fino alla seconda guerra mondiale – su un approccio più critico o dichiaratamente ostile; ma è un dato di fatto che un totale consenso nei confronti del mito garibaldino non ci sia mai stato.

E del resto è proprio questa, a ben vedere, la ragione per cui il Nizzardo ha avuto così tanti volti. Se sono esistiti tanti Garibaldi (quello repubblicano e mazziniano, quello monarchico dell’«Obbedisco», quello rivoluzionario dei socialisti e del fascismo delle origini, quello moderato, quello anticlericale e quello essenzialmente patriottico, tutti con molteplici sfaccettature), è anche perché nei confronti del Nizzardo non c’è mai stata uniformità di giudizio. Il che non deve indurre a pensare che il Generale non avesse una sua coerenza o che fosse nient’altro che un rozzo avventuriero: molto più semplicemente, Garibaldi fu un personaggio così straordinario – servì in sei diversi eserciti, fu membro di cinque Parlamenti, viaggiò come pochissimi uomini del suo tempo (e non solo), fu arrestato nove volte, fu condannato a morte, fu acclamato come eroe nel 1864 in occasione di un viaggio trionfale a Londra (nella capitale della nazione che era l’equivalente degli odierni Stati Uniti), ebbe in sostanza una vita irripetibile[3] – che qualunque etichetta sarebbe per lui riduttiva.

Lo stesso fascismo, oggetto di studio in queste pagine, conobbe diverse versioni del mito dell’Eroe dei due mondi, dapprima – come anticipato – icona rivoluzionaria, poi progressivamente istituzionalizzato quale suprema incarnazione dell’ideale patriottico, quindi esaltato come grande condottiero negli anni delle guerre del duce, infine, durante l’esperienza della Repubblica sociale italiana, celebrato quale fedele interprete delle virtù repubblicane, nel contesto di un preteso ritorno alle origini in opposizione alla monarchia sabauda “traditrice”. Con tutta evidenza siamo di fronte a un percorso per certi versi sorprendente, che testimonia a sua volta della poliedricità della dittatura mussoliniana e consente di far luce sulle strategie comunicative di una propaganda che aveva l’ambizione di raggiungere in modo totalitario ogni singolo abitante della penisola.

Nello specifico, oggetto di questo studio è la strumentalizzazione del mito di Garibaldi nella stampa fascista (o fascistizzata, dopo le leggi del 1926) modenese. Si tratta di una scelta che presuppone dei limiti nel lavoro di scavo in archivio – limiti che sono legati principalmente alla decisione di concentrare l’attenzione solo su fonti prodotte entro i confini della provincia di Modena –, ma che forse proprio per questo ha il vantaggio di offrire una trattazione esaustiva su un blocco documentario circoscritto. È del resto mia convinzione – sulla scorta di quanto sostenuto da Alessandro Barbero[4] – che compito dello storico non sia quello di visionare tutta la documentazione esistente su un dato argomento (operazione che nel caso della propaganda “garibaldina” risulterebbe francamente impossibile), bensì tentare di raccogliere materiale sufficiente a suffragare un’ipotesi interpretativa. È questo, in sostanza, il senso del lavoro che qui si presenta: mettere a disposizione del lettore – per lo più modenese, anche se, come si vedrà, la “modenesità” del libro è in realtà solo parziale, essendo Garibaldi il vero “protagonista” del volume – una base documentaria ben riconoscibile per inquadrare un argomento che mi auguro possa destare un minimo di interesse.

Al riguardo vale forse la pena sottolineare che sul Garibaldi “fascista” non è stato scritto molto. A parte alcuni saggi apparsi in miscellanee o su riviste specialistiche, e fatta eccezione per le monografie di Elena Pala[5] (che comunque si concentra quasi esclusivamente sul periodo della RSI) e di Patrizia Laurano[6], è senz’altro lecito sostenere che manchi uno studio approfondito della versione in camicia nera del mito garibaldino. Ciò premesso, va da sé che l’ambizione di questo lavoro sia proprio quella di colmare, almeno in parte, questa lacuna, pur con tutti i limiti che derivano – come detto – dalla scelta di consultare una porzione ridotta di documenti, rispetto alla totalità di quelli disponibili in ambito nazionale.

Il volume intende raggiungere un vasto ventaglio di lettori, fermo restando che il rigore del metodo scientifico – cui non ho voluto rinunciare – impone di seguire alcune regole (in particolare l’uso di note e la critica delle fonti) che potrebbero disorientare i non avvezzi alla saggistica storica. In concreto, il senso della precisazione è che non sono richieste particolari conoscenze preliminari. Presumendo, infatti, che chi sfoglia queste pagine conservi, rispetto al tema in esame, solo qualche sbiadito ricordo di studi scolastici, ho deciso di dedicare l’intero primo capitolo alla biografia di Garibaldi[7], cercando, nei limiti del possibile, di far luce sulle questioni più controverse della vita del Generale, e allo stesso tempo di confutare alcune gravi inesattezze oggi largamente propagandate da libri, quotidiani e soprattutto siti internet.

Nel secondo capitolo mi sono occupato diffusamente della nascita, dello sviluppo e della evoluzione del mito garibaldino, dal Risorgimento sino ai nostri giorni. Un mito, come detto, straordinariamente trasversale, senza dubbio il più longevo della storia dell’Italia unita, capace di resistere in parte ancora oggi, pur al netto della dilagante affermazione di un antimito che in gran parte recupera alcuni stereotipi ottocenteschi.

Fatta luce sul personaggio Garibaldi, il terzo capitolo si sofferma sul fascismo modenese, con l’obiettivo di inquadrare a livello generale un contesto storico ben preciso e di illustrare a grandi linee l’ambiente culturale all’interno del quale nacquero ed operarono i giornali, i periodici e le riviste presi in esame per lo studio della propaganda garibaldina.

L’ultimo capitolo, infine, si concentra sulla stampa fascista modenese e sullo sfruttamento propagandistico del mito del Nizzardo, attraverso l’analisi di ampi e numerosi stralci degli articoli più significativi. L’obiettivo è quello di far parlare, il più possibile, i giornali dell’epoca, fornendo al lettore gli strumenti necessari per una corretta interpretazione dei passi citati.

Detto questo, credo sia bene concludere questa introduzione con un’avvertenza. Al giorno d’oggi Garibaldi (e più in generale la storia come disciplina) corre il rischio di venire risucchiato da una sorta di vortice mediatico alimentato in parte dalla politica, ma soprattutto da certe correnti revisionistiche che godono di grande visibilità, specialmente su internet. A lungo percepito come eroe del popolo e primo artefice dell’unità nazionale, nell’ultimo ventennio il Nizzardo si è di fatto sedimentato nell’immaginario collettivo quale simbolo di un’Italia “istituzionale” contro la quale può tornare talvolta utile puntare il dito per difendere interessi di parte. Etichettato sbrigativamente quale nemico, a seconda dei casi, della Chiesa, del nord o del sud, Garibaldi oggi resiste soprattutto come antimito, in un paese alla continua ricerca di responsabili (o capri espiatori) cui poter addebitare l’attuale stato di crisi economica. Rispetto a questo quadro, il presente lavoro intende mantenere – nei limiti del possibile – un netto distacco: non si propone, cioè, di fare il “tifo” per o contro Garibaldi, o di far emergere una storia – in linea con la tendenza del momento – pro o contro il Risorgimento o il fascismo[8]. Esso, al contrario, è il frutto della volontà di approfondire per conoscere, di analizzare per comprendere, di riflettere non per giudicare, ma per riuscire a rispondere a qualche interrogativo in più. La storia, del resto, non è una trasmissione televisiva: non deve tenere conto dei dati dell’Auditel o misurare indici di gradimento, assecondando ad ogni costo i “gusti” del pubblico. La storia deve seguire i binari di un metodo di lavoro scientifico, senza far sventolare bandiere. A questo metodo, con i miei limiti, ho cercato di attenermi.



[1] L’espressione è di Mario Isnenghi, il quale a sua volta la trae da Agostino Depretis, del parere che Garibaldi rappresenti «un concetto; tutta la sua vita lo rappresenta: il riscatto dei popoli, la giustizia, il diritto nazionale, l’unità d’Italia. Se volete chiamarlo rivoluzione, chiamatelo; ma sarà la rivoluzione disciplinata, ordinata a un fine santissimo, al fine di liberare l’Italia, al fine di unificarla, a un fine d’ordine e di libertà» (citato in M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Il mito, le favole, Donzelli, Roma 2010, p. 59. La prima edizione – Donzelli 2007 – recava il seguente sottotitolo: Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato).

[2] L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Laterza, Roma-Bari 2007, p. XXXIV.

[3] Per queste statistiche si veda la conferenza di Alessandro Barbero intitolata Pensare l’Italia. Garibaldi, tenuta nel 2010 in occasione del Festival della Mente di Sarzana (http://www.festivaldellamente.it/it/video/?plID=PLTLuh0t T5lvoPRxNEpaAIQ4xYwc19mz1C&annovid=2010).

[4] Al riguardo, si veda il dibattito Barbero-De Crescenzo su Fenestrelle (http://www.storiainrete.com/7509/in-primo-piano/video-ecco-il-dibattito-barbero-de-crescenzo-sul-carcere-di-fenestrelle/).

[5] E. Pala, Garibaldi in camicia nera. Il mito dell’Eroe dei Due Mondi nella Repubblica di Salò 1943-1945, Mursia, Milano 2011.

[6] P. Laurano, Consenso e politica di massa. L’uso del mito garibaldino nella costruzione della nazione, Bonanno, Acireale-Roma 2009.

[7] L’intento divulgativo di questo lavoro ha reso necessaria una corposa parte di fatto introduttiva, volta ad inquadrare con un buon livello di approfondimento la biografia del Nizzardo, la nascita e lo sviluppo del mito garibaldino e le dinamiche generali del fascismo modenese. Di conseguenza, un lettore particolarmente ferrato in materia di studi garibaldini e – perché escluderlo? – profondo conoscitore della realtà modenese potrebbe ritenere superflui – o quantomeno ridondanti – i primi tre capitoli, e liquidarli rapidamente per concentrarsi sul capitolo 4, dedicato alla stampa fascista modenese. Ciò premesso, scusandomi con il lettore per l’“anomalia” che è all’origine di queste pagine, consiglio ugualmente di non ignorare i primi tre capitoli, se non altro per non correre il rischio di incontrare difficoltà interpretative.

[8] «La storia – scrive Denis Mack Smith – non ha per fine di prosciogliere o condannare, e nemmeno certamente di cancellare quel che può esservi di doloroso e imbarazzante, bensì di provarsi a comprendere e rendere intelligibile il passato» (D. Mack Smith, Le guerre del Duce, Mondadori, Milano 1992, p. VIII).

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