sabato 17 giugno 2023

Faccetta nera: il canto detestato dalle alte gerarchie fasciste








 

Riporto le prime pagine del capitolo 6 del mio libro Noi saremo la mitraglia della santa Libertà! (Il Fiorino 2022).


A parere di Cavallo e Iaccio, con l’impresa africana «il regime scopriva l’importanza della canzone come strumento di propaganda politica» e come «mezzo per veicolare idee e slogans». L’entrata in guerra venne accompagnata «da un coro di marcette entusiastiche», tra le quali spicca il più celebre dei canti fascisti – Faccetta nera (musica di Mario Ruccione, parole di Renato Micheli) –, che assurse a simbolo dell’avventura coloniale[1]. Il brano ebbe un successo travolgente, al punto che «per tutta Italia non si sentiva cantare altro»[2]. In poco tempo Faccetta nera «diventa oggetto di romanzi d’appendice a puntate, cartoline musicali, souvenir, viene stampata sulle etichette delle confezioni di conserve, marmellate, pasta alimentare, formaggi, mostarde, saponi, persino sulle stoviglie e i giocattoli»[3]. Il testo conobbe varie versioni. Questa la più nota:

 

Se tu dall’altipiano guardi il mare,

moretta che sei schiava fra gli schiavi,

vedrai come in un sogno tante navi

e un tricolore sventolar per te.

 

Rit. Faccetta nera,

bell’abissina,

aspetta e spera

che già l’ora s’avvicina!

Quando saremo

insieme a te

noi ti daremo

un’altra legge e un altro Re.

 

La legge nostra è schiavitù d’amore,

il nostro motto è «Libertà e dovere»;

vendicheremo noi, Camicie Nere,

gli eroi caduti liberando te.

 

Rit. Faccetta nera, ecc.

 

Faccetta nera, piccola abissina,

ti porteremo a Roma liberata;

dal sole nostro tu sarai baciata,

sarai in camicia nera pure tu.

 

Rit. Faccetta nera,

sarai romana,

la tua bandiera

sarà sol quella italiana!

Noi marceremo

insieme a te

e sfileremo

avanti al Duce e avanti al Re!

 

La canzone intende fornire una giustificazione ideologica della campagna coloniale: «non guerra di conquista, bensì missione liberatrice e civilizzatrice»[4]. La moretta, «schiava fra gli schiavi», troverà finalmente «un’altra legge», sarà «romana» e potrà indossare la camicia nera, simbolo di giustizia. È il mito della civiltà fascista, strettamente connesso con quello della «Terza Roma», rinata nel segno del littorio dopo l’epoca dei Cesari e dei papi.

Eppure c’è qualcosa che stona, in questo canto, rispetto alla propaganda ufficiale del regime. Come ha sottolineato Arrigo Petacco, la marcetta – che ebbe moltissime edizioni stampate, con parecchi editori e compositori che se ne attribuirono la paternità[5] – «rivela, meglio di ogni altra testimonianza, con quale spirito gli italiani di allora andarono alla conquista dell’Abissinia». Al di là della retorica, infatti, è ben visibile un palese messaggio antirazzista, oltre che un evidente «richiamo sessuale» che «spinse molti più giovani ad arruolarsi volontari di quanti ne attrasse il richiamo della “missione civilizzatrice” o della conquista del “posto al sole”»[6].

Ma era realistico, a metà anni Trenta, immaginare che una giovane abissina potesse sfilare in camicia nera «avanti al Duce e avanti al Re»? Non stupisce, con simili presupposti, che Faccetta nera abbia attraversato complesse vicissitudini, tra censure – a dire il vero poco efficaci –, invettive e goffi tentativi di riscrittura del testo. La canzone, inizialmente composta in romanesco[7], subì un primo “ritocco” con la sostituzione di due versi giudicati sconvenienti. Le parole «vendicheremo noi, Camicie Nere, / li morti d’Adua e libberamo a te» furono cassate per via di quel fastidioso richiamo alla disfatta italiana del 1896, ignominiosa per la clamorosa umiliazione rimediata in terra africana da un esercito coloniale europeo[8]. Così, i «morti d’Adua» cedettero il posto a ben più neutri «eroi caduti». Ma il vero problema era la sostanza del testo, il messaggio in esso contenuto. Lo rilevò con durezza estrema il modenese Paolo Monelli, raffinato giornalista ed ex ufficiale degli alpini:

 

Se io fossi imperator, sai ch’io farei? Prenderei l’autore delle parole della canzone Faccetta nera e l’obbligherei a vivere due o tre settimane, che dico?, due o tre giorni, e giuraddio che basterebbero due o tre ore, in una capanna abissina con una faccetta nera. Con una di queste abissine tutte sudicie di un sudiciume antico, sempre fetide del burro rancido che cola a goccioline sul collo; sfatte a vent’anni; per secolare servaggio amoroso fatte fredde ed inerti fra le braccia dell’uomo; e per una bella dal viso nobile e composto, cento ce ne sono dagli occhi cisposi, dai tratti duri e maschili, dalla pelle butterata. E gli direi: «Eccoti la tua faccetta nera; dalle la tua patria e il tuo re, e tientela vicino a te tutta la vita; questo è il fiore dell’equatore che ti aspetta e spera che già l’ora si avvicini. Vestila per la rivista, mettila in camicia nera (così almeno avrà una camicia)».

Le parole di Faccetta nera sono peggio che idiote. Sono indice di una mentalità che vorremmo trapassata, di uno stato d’animo rugiadoso e romantico corrotto di sdolcinatura e di vizio che dobbiamo seppellire sotto dieci metri di terra se vogliamo andare per il mondo a fare l’impero. Sono indegne della nostra gioventù sportiva e casta. Sono il frutto dell’ignoran­za provinciale di chi è venuto alla conquista dell’impero cantando la conquista di una donnetta puzzolente.

Né va dimenticato che l’amore è soprattutto fabbrica di prole. Ora che cosa vuole far fare alla faccetta nera il nostro cantastorie? Un figlio? Un meticcio? Qui l’ignoranza del cantore diventa delitto contro la razza (razza bianca dico; non corro dietro a certe deformazioni teutoniche). Ma noi dobbiamo popolare l’impero d’intatta gente nostra, non disseminare intorno malinconici bastardi. Non è ammissibile per un popolo sano, forte, antico, la promiscuità con i barbari vinti. Un popolo che costruisce per uno splendido futuro non augura a sé eredi corrotti[9].

 

La «filippica razzista e perbenista»[10], come la definisce Petacco, è altamente significativa proprio perché uscita dalla penna di un uomo colto. Ci aspetteremmo parole simili da un rude gerarca, da un fanatico alla Farinacci; e invece a pronunciarle è uno scrittore, in precedenza collaboratore della «Stampa» e del «Corriere della Sera», autore del romanzo di successo Le scarpe al sole. Ciò significa che Faccetta nera infastidiva non poco le alte sfere del regime, preoccupate di non incentivare la promiscuità razziale. Le allusioni alla «bell’abissina» che «aspetta e spera» in attesa dell’arrivo degli italiani erano giudicate intollerabili poiché lasciavano intendere, neanche troppo tra le righe, che in realtà fossero proprio questi ultimi a bramare facili conquiste sessuali in terra d’Africa. Del resto il fenomeno del madamato era assai diffuso e ben noto: in Etiopia, «tutti, ufficiali, sottufficiali, funzionari e coloni, disponevano di una “madama”», ossia di una “quasi moglie” con cui convivevano more uxorio[11].

Per contrastare il successo del canto furono però presi provvedimenti goffi e già in partenza condannati al fallimento. Alla fine si decise di ridurre la diffusione radiofonica dei versi di Micheli e di escluderli da parate e adunate; ma ancora nel 1938 l’orchestra sinfonica dell’EIAR registrò Faccetta nera in un disco che fu in seguito largamente venduto[12]. I tentativi di censura risultano tuttavia significativi a prescindere dai loro esiti, poiché fanno luce sullo iato che venne a crearsi a livello della mentalità tra i soldati in partenza per l’Africa e i vertici delle istituzioni fasciste. Da una parte, infatti, c’era una canzonetta spensierata che, come ebbe a dire Ennio Flaiano, contribuì «a riempire gli ospedali di “feriti in amore”»[13]; dall’al­tra, la politica imperiale del regime e l’esigenza, col tempo sempre più pressante, di preservare la “purezza” della razza.

Due in particolare furono i provvedimenti contro Faccetta nera degni di considerazione in questa sede. Il primo è una riscrittura del testo (datata 1936) con l’intento di offrire al pubblico una versione “emendata”[14], che è bene riprodurre per intero:

 

Se tu dalle ambe or guardi verso il mare,

moretta ch’eri schiava tra gli schiavi,

vedrai come in un sogno vele e navi

e un tricolor che sventola per te.

 

Rit. Faccetta nera, ch’eri abissina,

«Aspetta e spera» si cantò, l’ora è vicina.

Or che l’Italia veglia su te,

noi ti portiamo un’altra legge e un vero Re!

 

La legge nostra è libertà, o piccina;

e ti ha recata una parola umana.

Avrai la casa e il pane, o morettina,

e lieta potrai vivere anche te.

 

Rit. Faccetta nera, ch’eri abissina,

«Aspetta e spera» si cantò, l’ora è vicina.

Or che l’Italia veglia su te,

avrai tu pure a Imperatore il nostro Re!

 

Faccetta nera, il sogno s’è avverato:

non sei più schiava e più non lo sarai.

Dal ciel d’Italia, libera, vedrai

il sol di Roma splendere su te.

 

Rit. Faccetta nera, ch’eri abissina,

tornò l’Impero ed or l’Italia è a te vicina.

La nostra Patria veglia su te,

e lo giuriamo al nostro Duce e al nostro Re!

 

La censura, come si vede, non risparmiò praticamente nessun verso. Subito in apertura, le «ambe» prendono il posto dell’«altipia­no»: meglio non confondere i nostri rilievi montuosi con quelli africani. A seguire, cambia il tempo verbale: non più il presente («moretta che sei schiava»), bensì l’imperfetto («moretta ch’eri schiava»), come a dire che la missione civilizzatrice del fascismo non è solo in programma, ma è già stata compiuta. Di conseguenza, la protagonista del canto non è più etiope («Faccetta nera, ch’eri abissina»), essendo stata redenta grazie all’intervento dell’Italia che ora «veglia» sulla popolazione colonizzata. Non c’è più nulla da aspettare o sperare: la liberazione è cosa avvenuta. Emblematica è poi la sostituzione di «altro Re» con «vero Re», a sottolineare che un sovrano africano non può essere messo allo stesso livello di Vittorio Emanuele III.

Nella strofa successiva scompare il verso «La legge nostra è schiavitù d’amore»: sempre di una schiavitù si tratta, quindi meglio dire «La legge nostra è libertà», con l’aggiunta rassicurante di «una parola umana» e della garanzia di avere «la casa e il pane». Ma sia ben chiaro: niente più sfilata a Roma, in camicia nera, davanti a Mussolini e al re. È questo il cambiamento più significativo: per la faccetta nera, il «sogno» che «s’è avverato» non va certo confuso con l’integrazione. «Dal sole nostro tu sarai baciata» diventa «Dal ciel d’Italia, libera, vedrai / il sol di Roma splendere su te»: un giro di parole per suggerire che i salvifici raggi solari italiani giungono dall’Urbe a illuminare l’Impero africano. Ed è da qui, solo da qui, dalle ambe abissine, che la giovane etiope potrà godere dello splendore di Roma[15].

Come anticipato, l’intervento censorio a un anno dall’uscita della canzone si rivelò un fiasco totale. La popolarità e la diffusione di Faccetta nera, infatti, erano tali da rendere vano qualsiasi tentativo di far dimenticare agli italiani i versi originali[16]. Parimenti fallimentare fu la patetica decisione di incidere Faccetta bianca (musica di Eugenio Grio, parole di Nicola Macedonio), nell’illusione che essa potesse in qualche modo contrastare il successo del brano di Micheli-Ruccione. Si tratta del secondo provvedimento dall’alto che merita di essere preso in considerazione in queste pagine. Il testo del canto è il seguente:

 

Faccetta bianca, quando ti lasciai

quel giorno al molo, là presso il vapore,

e insieme ai legionari m’imbarcai,

l’occhio tuo nero mi svelò che il core

s’era commosso al par del core mio,

mentre la mano mi diceva addio!

 

Rit. Faccetta bianca,

amore mio,

pallida e stanca

faccetta, addio;

io lascio come un dì lasciò papà

un figlio che di me ti parlerà.

Ed a quel figlio canta con fermezza:

«Viva l’Italia, il Duce e Giovinezza!».

 

Faccetta bianca, proprio stamattina,

in una marcia lunga e faticosa,

e nel combattimento a me vicina,

io t’ho sognato, giovane mia sposa;

avevi dell’Italia il portamento

e mi spronavi per il gran cimento!

 

Rit. Faccetta bianca, ecc.

 

Faccetta bianca, i baci che m’hai dati

nella trincea mi tornano alla mente;

in mezzo a tanti visi affumicati

è il tuo visino più del sol splendente,

quasi in contrasto a quelle facce nere;

è fiamma e luce pel tuo bersagliere!

 

Rit. (solo musica)

«Viva l’Italia, il Duce e Giovinezza!».

 

Faccetta bianca, sola mia passione,

mi guida il compimento del dovere.

Verrà quel giorno che di commozione

ti stringerà al suo petto il bersagliere,

e la tua bella faccettina stanca

si poserà sulla medaglia bianca!

 

Rit. Faccetta bianca, ecc.

 

Vale la pena sottolineare che, in questo caso, la faccia nera è quella dei soldati con i «visi affumicati». Di contro, il volto della sposa è bianco e «più del sol splendente». Il contrasto cromatico è alla base di tutto il componimento: se infatti nella prima strofa è l’occhio nero della donna a svelare la commozione della partenza, nell’ultimo verso il ritorno trionfale del bersagliere è attestato dalla medaglia bianca conquistata sui campi di battaglia e ben appuntata sul petto.

Il canto fu tuttavia pressoché ignorato: il testo evidentemente forzato e una musicalità non in grado di competere con la marcia di Micheli-Ruccione vanificarono gli sforzi propagandistici del regime. Faccetta nera si era ormai sedimentata troppo in profondità. La cantavano tutti, in Italia e in Africa, spesso a preferenza degli inni ufficiali; e ne nacquero persino delle divertenti parodie, con versi come «Faccetta nera, brutta assassina, / a tre e ottanta c’hai mannato la benzina»[17]. Sempre in chiave ironica, un opuscolo intitolato Orgoglio di popolo nel clima dell’Impero – tutto incentrato sul comportamento da tenere con le popolazioni delle colonie – propose una riscrittura della canzone (intitolata ancora una volta Faccetta bianca), allo scopo di disincentivare i rapporti con le donne di colore. I versi erano di questo tenore: «Faccetta nera, per carità!... / Solo la bianca è la regina di beltà»; o ancora: «Non voglio più cantar Faccetta nera, / non voglio più sentir “bella abissina”, / perché la donna nostra è più carina / e piena d’ogni pregio e qualità»[18].

In definitiva, le ragioni del successo di Faccetta nera risiedono nel suo essere «canzone popolare e non politica», in grado di interpretare «aspettative ed entusiasmi innocenti». Ciò è dimostrato – secondo Giuliano Santangeli – dal fatto che «un governo severo e in pieno vigore dovette intervenire scopertamente più volte per ridurre alle sue esigenze un fenomeno che gli sfuggiva di mano»[19]. Checché se ne dica, non si può fare a meno di notare che «questa canzone era particolarmente sentita dal popolo»[20].



[1] Cfr. P. Cavallo, P. Iaccio, Vincere! Vincere! Vincere! Fascismo e società italiana nelle canzoni e nelle riviste di varietà (1935-1943), Liguori, Napoli 2003, p. 13.

[2] G. Di Capua, Faccetta nera. Canti dell’ebbrezza fascista, Scipioni, Valentano 2000, p. 23.

[3] F. Liperi, Storia della canzone italiana, Rai-Eri, Roma 1999, p. 123.

[4] P. Cavallo, P. Iaccio, Vincere! Vincere! Vincere!, cit., p. 14.

[5] Cfr. L. Donati, E il regime censurò perfino “Faccetta nera”, in «Patria indi­pendente», 24 giugno 2007, p. 46.

[6] Cfr. A. Petacco, Faccetta nera. Storia della conquista dell’impero, Mondadori, Milano 2003, pp. 189-190. «Per alimentare questi entusiasmi – continua Petacco –, i giornali, il cinema, la pubblicità e persino i pacchetti di sigarette furono autorizzati a esporre invoglianti nerette a petto nudo in un’e­poca così bacchettona e morigerata in cui il seno delle ragazze bianche si poteva soltanto immaginare […]. “Mai come allora” ha scritto Leo Longanesi “si sono am­mirate immagini di seni così turgidi e puntuti. Gli italiani non vedevano l’ora di partire: l’Abissinia ai loro occhi appariva come una sterminata selva di bellissime mammelle a portata di mano”» (ivi, pp. 190-191).

[7] Cfr. G. Micheli, Storia della canzone romana, a cura di Gianni Borgna, Newton Compton, Roma 1989, pp. 551-552.

[8] Cfr. G. Santangeli, Il caso “Faccetta nera”, in «Studi romani», anno LIII, nn. 1-2, gennaio-giugno 2005, p. 248 e E. Di Bona, Faccetta nera: dolci promesse all’“animalino docile”, in «Mosaico - Rivista online del Liceo Scientifico Classico “F. Quercia” Marcia­nise», n. VII, 2020, p. 41. Fatta eccezione per i due versi su Adua, la versione in dialetto romanesco – non gradita alle autorità anche sotto il profilo linguistico – di fatto non si discosta da quella in italiano del 1935 (cfr. G. Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano 1992, p. 146 e L. Donati, E il regime censurò perfino “Faccetta nera”, cit., p. 46).

[9] P. Monelli, Moglie e buoi dei paesi tuoi, in «Gazzetta del Popolo», 13 giugno 1936, citato in A. Petacco, Faccetta nera, cit., p. 192.

[10] Ibidem.

[11] Cfr. ivi, p. 193 e L. Bussotti, La rappresentazione dell’Africa nella musica leggera italiana: dalle prime esperienze coloniali al Fascismo, in «Africa e Mediterraneo», n. 82, 2015, p. 69.

[12] Cfr. A. Petacco, Faccetta nera, cit., p. 192.

[13] E. Flaiano, Aethiopia. Appunti per una canzonetta, in Id., Tempo di uccidere, Bur, Milano 2003, p. 268.

[14] All’indomani della proclamazione dell’Impero, il «prefetto di Roma chiama a palazzo Renato Micheli e gli impone, seduta stante, di riscrivere in modo più convincente […] l’intero testo di Faccetta nera» (G. Santangeli, Il caso “Faccetta nera”, cit., pp. 249-250).

[15] Cfr. L. Donati, E il regime censurò perfino “Faccetta nera”, cit., p. 47.

[16] Cfr. E. Mastrangelo, I canti del littorio. Storia del fascismo attraverso le canzoni, Lo scarabeo, Bologna 2006, pp. 128-129.

[17] Cfr. G. Santangeli, Il caso “Faccetta nera”, cit., pp. 249-251.

[18] Cfr. E. Ertola, In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 157-158.

[19] Cfr. G. Santangeli, Il caso “Faccetta nera”, cit., p. 252.

[20] G. Micheli, Storia della canzone romana, cit., p. 551.

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