Lapide presso le Motte della Pastorara
Nell’immaginario collettivo del nostro paese la figura di
Anita è stata a lungo subordinata a quella di Giuseppe Garibaldi. Per decenni
il mito del Nizzardo ha allo stesso tempo inglobato e alimentato quello dell’«amazzone brasiliana», lodata in quanto
esempio di devozione e celebrata per aver sacrificato la vita per la causa del
marito. Anita – commentava nel 1933 Gustavo Sacerdote – «non combatte per la
patria in America, non muore per la patria in Italia. Ella combatte unicamente
pel suo José, che è il suo Nume. E in ciò ella è un esempio magnifico
dell’eterno femminino»[1].
Secondo questa prospettiva – che trova icastica espressione nell’immagine
dell’«eroina dell’amore» proposta da Giacomo Emilio Curatulo[2]
–, il coraggio di Anita non è altro che il riflesso di quello di Garibaldi,
straordinario proprio perché nessuno si aspetterebbe di ritrovarlo in una
donna. E l’eroismo consiste in fondo nell’amare senza condizioni,
nell’accettare serenamente – ma passivamente – il proprio destino, nell’essere
moglie degna del vero eroe uomo.
Lo stesso
Garibaldi alimenta indirettamente il luogo comune dell’inferiorità della donna
rispetto all’uomo. Seppur di idee avanzatissime per la sua epoca, il Nizzardo
finisce per adeguarsi al pensare comune proprio laddove esalta la figura della
moglie in contrasto con una supposta inadeguatezza femminile a ricoprire determinati
ruoli prettamente maschili. Per il Generale, infatti, «nei disagi e nei
pericoli della guerra» Anita si dimostra «superiore al suo sesso»[3].
Si tratta forse di una presa di posizione inconsapevole, che è giusto
contestualizzare e ricondurre alla mentalità ottocentesca. Ma è bene
sottolinearla, per comprendere appieno il significato del mito e la sua
evoluzione nel corso dei decenni.
Il racconto
della vita di Anita, infatti, è profondamente cambiato con il trascorrere del
tempo. L’Italia postrisorgimentale – anche sulla scorta di quanto tramandato da
Garibaldi – ha esaltato la moglie devota che sacrifica la vita per la causa del
marito; il fascismo ha voluto celebrare nell’amazzone impavida un modello ambivalente
da additare alle donne della penisola, ovvero un perfetto esempio di sposa e
madre amorevole, ma anche di combattente e di patriota; l’Italia repubblicana,
infine, per anni ha faticato a lasciarsi alle spalle la vecchia retorica,
limitandosi a richiamare, di tanto in tanto e con scarsa convinzione, un mito
datato e scolorito, compromesso con un passato da dimenticare e incapace di
stimolare nuovi spunti interpretativi.
Il problema di
fondo è che il rapporto tra Anita e Garibaldi «simboleggia una “rottura
radicale”» rispetto a quello che per decenni è stato considerato il modo
tradizionale di raccontare le gesta di un eroe. Come infatti ha recentemente
osservato Jerome Grévy, un
condottiero unito ad una donna che aspetta a casa
con i bambini, è una cosa possibile. Un uomo combattente e sua moglie che lo aiuta,
a tutto rigore, sarebbe altresì possibile, anche se sorprendente. Ma una coppia
che fugge attraverso gli Appennini non corrisponde a un cliché romantico. I lettori,
pertanto, non possono identificarsi nei protagonisti di queste gesta[4].
Solo
nell’ultimo ventennio l’interesse per la figura di Anita ha conosciuto una fase
di deciso rilancio, sganciandosi dai vecchi luoghi comuni non solo in ambito
storiografico. Se infatti è necessario partire da quest’ultimo per svincolare
la biografia dell’eroina di Laguna dall’ingombrante presenza del marito, è con
la recente proliferazione di scritti e di materiale di tutt’altra natura
(romanzi, poesie, fumetti, opere d’arte, narrativa per l’infanzia, documentari,
canzoni, una pièce teatrale e non ultima una fiction televisiva) che
il mito di Anita si carica con forza sorprendente di significati inediti,
restituendoci il ritratto di una giovane forte, valorosa e «ribelle ai soprusi»[5],
ma soprattutto libera nel contravvenire alle convenzioni sociali del suo tempo.
Non più semplicemente «donna del Generale», oggi Ana Maria de Jesus Ribeiro si è come
impadronita del proprio mito, recitando finalmente una parte da protagonista.
Anita è essenzialmente un’eroina della libertà. Quando sceglie di
abbandonare la famiglia per seguire il suo amato José, e ancor più quando
decide di raggiungerlo a Roma nel 1849, la giovane brasiliana va deliberatamente
incontro al proprio destino, rompendo clamorosamente con una consolidata
tradizione che alla donna assegna il ruolo di madre e di moglie devota nella sottomissione
al marito. L’indole ribelle, l’ostinata determinazione a dare ascolto ai
sentimenti, il coraggio figlio della passione e la motivazione feroce a
combattere fino alla morte per un ideale di giustizia sono tutti ingredienti
fondamentali di un mito profondamente rinnovato e “in salute”.
Oggi infatti Anita è straordinariamente viva come simbolo
dell’emancipazione femminile, e sembra resistere al logorio del tempo meglio di
Garibaldi, sempre più spesso bersaglio di invettive e accuse malfondate ma
capaci di attecchire[6].
Si tratta, senza dubbio, di un’anomalia, in controtendenza rispetto alla
crescente propensione di certi ambienti revisionisti a trattare il Risorgimento
come un periodo da “interrogare” e
da mettere polemicamente «in discussione»[7].
Ma è un dato di fatto: riprendendo un’efficace espressione di Mario Isnenghi,
nel 2021 il mito di Anita «funziona» meglio di quello dell’Eroe dei due mondi[8].
Al netto di
tutto ciò, è però bene precisare che, a dispetto delle buone intenzioni,
risulta pressoché impossibile scrivere di Ana Maria de Jesus Ribeiro senza
soffermarsi, e a lungo, sul marito. Non potrebbe essere altrimenti, del resto, considerando
che l’ingresso nella storia da parte della giovane brasiliana si deve a
Garibaldi e alla sua centralità nel processo risorgimentale. Anche questo lavoro,
di conseguenza, non fa eccezione: il Nizzardo vi occupa un ruolo di assoluto
rilievo, soprattutto nel primo capitolo, di carattere biografico. Nondimeno, è
lo scopo ultimo della trattazione a divergere rispetto a tanti studi
precedenti. In breve, si parla di Garibaldi per contestualizzare le scelte e
l’operato di Anita, tenendo quest’ultima il più possibile al centro della
narrazione, e soprattutto rifuggendo dalla tentazione di banalizzarne gli
ideali, appiattendoli su quelli del marito.
Non è stato
semplice, come si usa dire, separare il grano dal loglio e ricostruire la
vicenda umana di Anita eliminando le incrostazioni di una retorica secolare.
Fino a non molti anni fa dell’eroina si è scritto con estrema libertà, facendo
concessioni al sensazionalismo a scapito del rigore storiografico. E in parte
ancora oggi il problema persiste. Molte pubblicazioni, alle quali ho
inevitabilmente fatto riferimento, sono pertanto da trattare con cura e con
spirito critico. In questo panorama potenzialmente sconfortante, ha di recente
visto la luce un volume rivoluzionario nel suo genere, capace di restituire
Anita alla storia in modo scrupoloso, ma anche di inquadrare la questione del
mito a partire da una consistente mole documentaria. Mi riferisco ad Anita. Storia e mito di Anita Garibaldi
di Silvia Cavicchioli[9],
cui va l’indiscusso merito di avere posto la lente di ingrandimento sui vari
modelli di rappresentazione dell’eroina. Allo studio della docente
dell’Università di Torino ho quindi fatto costante riferimento, in particolare
nel secondo capitolo.
Nel terzo,
invece, ho tentato di proseguire e completare il discorso che Cavicchioli
interrompe sostanzialmente con il 1932, anno delle celebrazioni per il
cinquantenario della morte di Garibaldi. Il risultato, almeno nelle mie
intenzioni, è un’indagine il più possibile esaustiva sull’evoluzione della
percezione pubblica del racconto della vita di Anita, dalla seconda metà
dell’Ottocento ad oggi. In concreto, ho voluto studiare il mito dell’eroina
brasiliana analizzandolo da più punti di vista e osservandolo nel suo sviluppo
cronologico. Cosa comunicava in passato e cosa invece trasmette nel 2021, a
duecento anni dalla nascita? Sono questi gli interrogativi che hanno stimolato
la mia ricerca, a partire dalla convinzione che i miti dicano molto di una
società e dei suoi valori. Con la parola mito, infatti, si deve fare
riferimento ad un racconto che interpreta le aspirazioni di una comunità o di
un’epoca; esso ha uno scopo educativo, politico, formativo, nel senso che è
orientato ad un fine ben preciso e si incarica di polarizzare gli ideali di una
collettività. Il mito, pertanto, è molto più complesso di una semplice
leggenda, ovvero una narrazione semplificata, arricchita di elementi poco realistici,
delle gesta di un eroe. Il mito racconta chi siamo o pretendiamo di essere; ci
dice, nel nostro caso, cosa c’è di “contemporaneo” e di attuale nella vita di
Anita, e come questa percezione si sia evoluta nel corso dei decenni. Il mito
ha a che fare con la produzione storiografica – fondamentale per inquadrare i
fatti –, ma va oltre. Esso non cerca la
verità, bensì una verità, sempre
mutevole e sfuggente. Idealmente sarebbe bene si fondasse su dati certi e dimostrabili,
ancorché necessariamente semplificati a scopo divulgativo; ma ciò accade di
rado, forse mai a dire il vero.
Ciò premesso,
chiarisco brevemente l’architettura del presente lavoro. Nel primo capitolo ho
ricostruito la biografia di Anita, tenendo conto della vasta bibliografia
disponibile in lingua italiana. È mia convinzione, infatti, che lo studio del
mito non possa prescindere dalla corretta comprensione dei fatti e dei problemi
storici, indagati con metodo scientifico e sottoponendo a critica ogni singola
fonte.
Il secondo
capitolo si sofferma sulle origini e sulla diffusione del mito, sulla base di
un percorso che va dal Risorgimento al fascismo, con l’epilogo trionfale
dell’«apoteosi» di Anita nel 1932, in occasione dell’inaugurazione del
monumento equestre sul Gianicolo alla presenza di Mussolini e del re.
Particolare attenzione viene posta inoltre sulle circostanze della morte
dell’eroina, chiarite da decenni in sede storiografica ma tuttora in grado di
alimentare stucchevoli polemiche.
Nel terzo ed
ultimo capitolo, infine, ho inteso analizzare alcuni aspetti del mito legati al
recente passato e alla contemporaneità. Si tratta di un tema a mio avviso non
sufficientemente indagato dalla storiografia, più concentrata sulle epoche
precedenti e sulla necessità di ricostruire in modo affidabile, nel rispetto
delle fonti, la biografia della lagunense. Fanno eccezione, in questo quadro, i
lavori di Annita Garibaldi Jallet, attenta studiosa della discendenza dell’Eroe
dei due mondi (oltre che della sua eredità morale), e in prima linea nella
divulgazione di una corretta interpretazione del mito dell’amazzone brasiliana,
a partire anche da una scrupolosa consultazione delle fonti sudamericane[10].
Il presente
volume, in definitiva, si incarica di spiegare cosa rappresenti, oggi, il mito
di Anita in Italia. È questo il senso della «riscoperta» evocata nel
sottotitolo: capire le ragioni all’origine del profluvio di pubblicazioni che
hanno riempito le librerie negli ultimi vent’anni; comprendere perché e in che
modo, dopo decenni di declino, il mito si sia improvvisamente rinnovato; e in
ultima istanza contribuire, nel mio piccolo, ad alimentare il dibattito pubblico
su una figura complessa e affascinante del nostro recente passato nazionale.
L’occasione del bicentenario della nascita, del resto, è propizia, e sarebbe un
vero peccato non coglierla.
[1] G. Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi secondo i risultati delle più recenti indagini storiche con numerosi documenti inediti, Rizzoli, Milano 1933, p. 197.
[2] Cfr. G. E. Curatulo, Anita Garibaldi. L’eroina dell’amore, Treves, Milano-Roma 1932.
[3] G. Garibaldi, Anita Garibaldi, in Id., Le memorie di Garibaldi in una delle redazioni anteriori alla definitiva del 1872, a cura della Reale Commissione, Cappelli, Bologna 1932, p. 375.
[4] J. Grevy, Il posto dell’amore nel mito di Garibaldi, in A. Frontani, C. Pasquinelli (a cura di), Garibaldi innamorato. La figura dell’eroe e il garibaldinismo in Toscana, Polistampa, Firenze 2009, p. 70.
[5] F. Missiroli, Biografie, in S. Piccardi, Anita donna di due mondi, Danilo Montanari, Ravenna 2019, p. 47.
[6] Su questo tema rimando al mio Garibaldi oggi: antimito e “controstorie”, in R. Vaccari, G. Montecchi (a cura di), Risorgimento. Storia, miti e vita civile, «Il Menotti», Quaderni del Risorgimento Italiano, n. 1, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Comitato Provinciale di Modena, Artestampa, Modena 2020, pp. 33-48.
[7] Cfr. F. Della Peruta, M. Isnenghi, S. Soldani (a cura di), Risorgimento in discussione, in «Passato e presente», n. 41, maggio-agosto 1997, pp. 15-43.
[8] Cfr. M. Isnenghi, Garibaldi. La versione di Mario Isnenghi, in P. Chessa (a cura di), Se Garibaldi avesse perso. Storia controfattuale dell’Unità d’Italia, Marsilio, Venezia 2011, p. 96.
[9] S. Cavicchioli, Anita. Storia e mito di Anita Garibaldi, Einaudi, Torino 2017.
[10] Faccio riferimento in particolare a Z. Ciuffoletti, A. Colombo, A. Garibaldi Jallet (a cura di), I Garibaldi dopo Garibaldi. La tradizione famigliare e l’eredità politica, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2005; a A. Garibaldi Jallet, Anita o Ana Maria de Jesus Ribeiro? Uno sguardo oltre il mito, in C. Vernizzi (a cura di), Garibaldi in Piemonte tra guerra, politica e medicina, Atti del convegno internazionale di studi per il bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, 12-12 ottobre 2007, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Novara 2008, pp. 75-93; e a Ead., Alla fine dell’ultimo viaggio: Anita, il Generale e i loro figli, in E. Franzina (a cura di), Garibaldi e il Risorgimento nel Veneto. Spunti e appunti a ridosso di due anniversari, Cierre, Caselle di Sommacampagna 2011, pp. 225-237.
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