mercoledì 21 giugno 2023

Anita. La riscoperta di un'eroina

 





Introduzione del mio libro Anita (Il Fiorino 2021)




D’oltre oceano / fra criniere al vento / e schianti di fucili / fu / per Garibaldi / Anita / per l’Italia / la vivente immagine / della libertà.

Lapide presso le Motte della Pastorara

 

 

 

 

Nell’immaginario collettivo del nostro paese la figura di Anita è stata a lungo subordinata a quella di Giuseppe Garibaldi. Per decenni il mito del Nizzardo ha allo stesso tempo inglobato e alimentato quello dell’«amazzone brasiliana», lodata in quanto esempio di devozione e celebrata per aver sacrificato la vita per la causa del marito. Anita – commentava nel 1933 Gustavo Sacerdote – «non combatte per la patria in America, non muore per la patria in Italia. Ella combatte unicamente pel suo José, che è il suo Nume. E in ciò ella è un esempio magnifico dell’eterno femminino»[1]. Secondo questa prospettiva – che trova icastica espressione nell’immagine dell’«eroina dell’amore» proposta da Giacomo Emilio Curatulo[2] –, il coraggio di Anita non è altro che il riflesso di quello di Garibaldi, straordinario proprio perché nessuno si aspetterebbe di ritrovarlo in una donna. E l’eroismo consiste in fondo nell’amare senza condizioni, nell’accettare serenamente – ma passivamente – il proprio destino, nell’essere moglie degna del vero eroe uomo.

Lo stesso Garibaldi alimenta indirettamente il luogo comune dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Seppur di idee avanzatissime per la sua epoca, il Nizzardo finisce per adeguarsi al pensare comune proprio laddove esalta la figura della moglie in contrasto con una supposta inadeguatezza femminile a ricoprire determinati ruoli prettamente maschili. Per il Generale, infatti, «nei disagi e nei pericoli della guerra» Anita si dimostra «superiore al suo sesso»[3]. Si tratta forse di una presa di posizione inconsapevole, che è giusto contestualizzare e ricondurre alla mentalità ottocentesca. Ma è bene sottolinearla, per comprendere appieno il significato del mito e la sua evoluzione nel corso dei decenni.

Il racconto della vita di Anita, infatti, è profondamente cambiato con il trascorrere del tempo. L’Italia postrisorgimentale – anche sulla scorta di quanto tramandato da Garibaldi – ha esaltato la moglie devota che sacrifica la vita per la causa del marito; il fascismo ha voluto celebrare nell’amazzone impavida un modello ambivalente da additare alle donne della penisola, ovvero un perfetto esempio di sposa e madre amorevole, ma anche di combattente e di patriota; l’Italia repubblicana, infine, per anni ha faticato a lasciarsi alle spalle la vecchia retorica, limitandosi a richiamare, di tanto in tanto e con scarsa convinzione, un mito datato e scolorito, compromesso con un passato da dimenticare e incapace di stimolare nuovi spunti interpretativi.

Il problema di fondo è che il rapporto tra Anita e Garibaldi «simboleggia una “rottura radicale”» rispetto a quello che per decenni è stato considerato il modo tradizionale di raccontare le gesta di un eroe. Come infatti ha recentemente osservato Jerome Grévy, un

 

condottiero unito ad una donna che aspetta a casa con i bambini, è una cosa possibile. Un uomo combattente e sua moglie che lo aiuta, a tutto rigore, sarebbe altresì possibile, anche se sorprendente. Ma una coppia che fugge attraverso gli Appennini non corrisponde a un cliché romantico. I lettori, pertanto, non possono identificarsi nei protagonisti di queste gesta[4].

 

Solo nell’ultimo ventennio l’interesse per la figura di Anita ha conosciuto una fase di deciso rilancio, sganciandosi dai vecchi luoghi comuni non solo in ambito storiografico. Se infatti è necessario partire da quest’ultimo per svincolare la biografia dell’eroina di Laguna dall’ingombrante presenza del marito, è con la recente proliferazione di scritti e di materiale di tutt’altra natura (romanzi, poesie, fumetti, opere d’arte, narrativa per l’infanzia, documentari, canzoni, una pièce teatrale e non ultima una fiction televisiva) che il mito di Anita si carica con forza sorprendente di significati inediti, restituendoci il ritratto di una giovane forte, valorosa e «ribelle ai soprusi»[5], ma soprattutto libera nel contravvenire alle convenzioni sociali del suo tempo.

Non più semplicemente «donna del Generale», oggi Ana Maria de Jesus Ribeiro si è come impadronita del proprio mito, recitando finalmente una parte da protagonista. Anita è essenzialmente un’eroina della libertà. Quando sceglie di abbandonare la famiglia per seguire il suo amato José, e ancor più quando decide di raggiungerlo a Roma nel 1849, la giovane brasiliana va deliberatamente incontro al proprio destino, rompendo clamorosamente con una consolidata tradizione che alla donna assegna il ruolo di madre e di moglie devota nella sottomissione al marito. L’indole ribelle, l’osti­nata determinazione a dare ascolto ai sentimenti, il coraggio figlio della passione e la motivazione feroce a combattere fino alla morte per un ideale di giustizia sono tutti ingredienti fondamentali di un mito profondamente rinnovato e “in salute”.

Oggi infatti Anita è straordinariamente viva come simbolo dell’emancipazione femminile, e sembra resistere al logorio del tempo meglio di Garibaldi, sempre più spesso bersaglio di invettive e accuse malfondate ma capaci di attecchire[6]. Si tratta, senza dubbio, di un’anomalia, in controtendenza rispetto alla crescente propensione di certi ambienti revisionisti a trattare il Risorgimento come un periodo da “interrogare” e da mettere polemicamente «in discussione»[7]. Ma è un dato di fatto: riprendendo un’efficace espressione di Mario Isnenghi, nel 2021 il mito di Anita «funziona» meglio di quello dell’Eroe dei due mondi[8]. 

Al netto di tutto ciò, è però bene precisare che, a dispetto delle buone intenzioni, risulta pressoché impossibile scrivere di Ana Maria de Jesus Ribeiro senza soffermarsi, e a lungo, sul marito. Non potrebbe essere altrimenti, del resto, considerando che l’ingresso nella storia da parte della giovane brasiliana si deve a Garibaldi e alla sua centralità nel processo risorgimentale. Anche questo lavoro, di conseguenza, non fa eccezione: il Nizzardo vi occupa un ruolo di assoluto rilievo, soprattutto nel primo capitolo, di carattere biografico. Nondimeno, è lo scopo ultimo della trattazione a divergere rispetto a tanti studi precedenti. In breve, si parla di Garibaldi per contestualizzare le scelte e l’operato di Anita, tenendo quest’ul­tima il più possibile al centro della narrazione, e soprattutto rifuggendo dalla tentazione di banalizzarne gli ideali, appiattendoli su quelli del marito.

Non è stato semplice, come si usa dire, separare il grano dal loglio e ricostruire la vicenda umana di Anita eliminando le incrostazioni di una retorica secolare. Fino a non molti anni fa dell’eroina si è scritto con estrema libertà, facendo concessioni al sensazionalismo a scapito del rigore storiografico. E in parte ancora oggi il problema persiste. Molte pubblicazioni, alle quali ho inevitabilmente fatto riferimento, sono pertanto da trattare con cura e con spirito critico. In questo panorama potenzialmente sconfortante, ha di recente visto la luce un volume rivoluzionario nel suo genere, capace di restituire Anita alla storia in modo scrupoloso, ma anche di inquadrare la questione del mito a partire da una consistente mole documentaria. Mi riferisco ad Anita. Storia e mito di Anita Garibaldi di Silvia Cavicchioli[9], cui va l’indiscusso merito di avere posto la lente di ingrandimento sui vari modelli di rappresentazione dell’e­roina. Allo studio della docente dell’Università di Torino ho quindi fatto costante riferimento, in particolare nel secondo capitolo.

Nel terzo, invece, ho tentato di proseguire e completare il discorso che Cavicchioli interrompe sostanzialmente con il 1932, anno delle celebrazioni per il cinquantenario della morte di Garibaldi. Il risultato, almeno nelle mie intenzioni, è un’indagine il più possibile esaustiva sull’evoluzione della percezione pubblica del racconto della vita di Anita, dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi. In concreto, ho voluto studiare il mito dell’eroina brasiliana analizzandolo da più punti di vista e osservandolo nel suo sviluppo cronologico. Cosa comunicava in passato e cosa invece trasmette nel 2021, a duecento anni dalla nascita? Sono questi gli interrogativi che hanno stimolato la mia ricerca, a partire dalla convinzione che i miti dicano molto di una società e dei suoi valori. Con la parola mito, infatti, si deve fare riferimento ad un racconto che interpreta le aspirazioni di una comunità o di un’epoca; esso ha uno scopo educativo, politico, formativo, nel senso che è orientato ad un fine ben preciso e si incarica di polarizzare gli ideali di una collettività. Il mito, pertanto, è molto più complesso di una semplice leggenda, ovvero una narrazione semplificata, arricchita di elementi poco realistici, delle gesta di un eroe. Il mito racconta chi siamo o pretendiamo di essere; ci dice, nel nostro caso, cosa c’è di “contemporaneo” e di attuale nella vita di Anita, e come questa percezione si sia evoluta nel corso dei decenni. Il mito ha a che fare con la produzione storiografica – fondamentale per inquadrare i fatti –, ma va oltre. Esso non cerca la verità, bensì una verità, sempre mutevole e sfuggente. Idealmente sarebbe bene si fondasse su dati certi e dimostrabili, ancorché necessariamente semplificati a scopo divulgativo; ma ciò accade di rado, forse mai a dire il vero.

Ciò premesso, chiarisco brevemente l’architettura del presente lavoro. Nel primo capitolo ho ricostruito la biografia di Anita, tenendo conto della vasta bibliografia disponibile in lingua italiana. È mia convinzione, infatti, che lo studio del mito non possa prescindere dalla corretta comprensione dei fatti e dei problemi storici, indagati con metodo scientifico e sottoponendo a critica ogni singola fonte.

Il secondo capitolo si sofferma sulle origini e sulla diffusione del mito, sulla base di un percorso che va dal Risorgimento al fascismo, con l’epilogo trionfale dell’«apote­osi» di Anita nel 1932, in occasione dell’inaugurazione del monumento equestre sul Gianicolo alla presenza di Mussolini e del re. Particolare attenzione viene posta inoltre sulle circostanze della morte dell’eroina, chiarite da decenni in sede storiografica ma tuttora in grado di alimentare stucchevoli polemiche.

Nel terzo ed ultimo capitolo, infine, ho inteso analizzare alcuni aspetti del mito legati al recente passato e alla contemporaneità. Si tratta di un tema a mio avviso non sufficientemente indagato dalla storiografia, più concentrata sulle epoche precedenti e sulla necessità di ricostruire in modo affidabile, nel rispetto delle fonti, la biografia della lagunense. Fanno eccezione, in questo quadro, i lavori di Annita Garibaldi Jallet, attenta studiosa della discendenza dell’E­roe dei due mondi (oltre che della sua eredità morale), e in prima linea nella divulgazione di una corretta interpretazione del mito dell’amazzone brasiliana, a partire anche da una scrupolosa consultazione delle fonti sudamericane[10].

Il presente volume, in definitiva, si incarica di spiegare cosa rappresenti, oggi, il mito di Anita in Italia. È questo il senso della «riscoperta» evocata nel sottotitolo: capire le ragioni all’origine del profluvio di pubblicazioni che hanno riempito le librerie negli ultimi vent’anni; comprendere perché e in che modo, dopo decenni di declino, il mito si sia improvvisamente rinnovato; e in ultima istanza contribuire, nel mio piccolo, ad alimentare il dibattito pubblico su una figura complessa e affascinante del nostro recente passato nazionale. L’occasione del bicentenario della nascita, del resto, è propizia, e sarebbe un vero peccato non coglierla.



[1] G. Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi secondo i risultati delle più recenti indagini storiche con numerosi documenti inediti, Rizzoli, Milano 1933, p. 197.

[2] Cfr. G. E. Curatulo, Anita Garibaldi. L’eroina dell’amore, Treves, Milano-Ro­ma 1932.

[3] G. Garibaldi, Anita Garibaldi, in Id., Le memorie di Garibaldi in una delle redazioni anteriori alla definitiva del 1872, a cura della Reale Commissione, Cappelli, Bologna 1932, p. 375.

[4] J. Grevy, Il posto dell’amore nel mito di Garibaldi, in A. Frontani, C. Pasquinelli (a cura di), Garibaldi innamorato. La figura dell’eroe e il garibaldinismo in Toscana, Polistampa, Firenze 2009, p. 70.

[5] F. Missiroli, Biografie, in S. Piccardi, Anita donna di due mondi, Danilo Montanari, Ravenna 2019, p. 47.

[6] Su questo tema rimando al mio Garibaldi oggi: antimito e “controstorie”, in R. Vaccari, G. Montecchi (a cura di), Risorgimento. Storia, miti e vita civile, «Il Menotti», Quaderni del Risorgimento Italiano, n. 1, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Comitato Provinciale di Modena, Artestampa, Modena 2020, pp. 33-48.

[7] Cfr. F. Della Peruta, M. Isnenghi, S. Soldani (a cura di), Risorgimento in discussione, in «Passato e presente», n. 41, maggio-agosto 1997, pp. 15-43.

[8] Cfr. M. Isnenghi, Garibaldi. La versione di Mario Isnenghi, in P. Chessa (a cura di), Se Garibaldi avesse perso. Storia controfattuale dell’Unità d’Italia, Marsilio, Venezia 2011, p. 96.

[9] S. Cavicchioli, Anita. Storia e mito di Anita Garibaldi, Einaudi, Torino 2017.

[10] Faccio riferimento in particolare a Z. Ciuffoletti, A. Colombo, A. Garibaldi Jallet (a cura di), I Garibaldi dopo Garibaldi. La tradizione famigliare e l’eredi­tà politica, Lacaita, Manduria-Bari-Ro­ma 2005; a A. Garibaldi Jallet, Anita o Ana Maria de Jesus Ribeiro? Uno sguardo oltre il mito, in C. Vernizzi (a cura di), Garibaldi in Piemonte tra guerra, politica e medicina, Atti del convegno internazionale di studi per il bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, 12-12 ottobre 2007, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Novara 2008, pp. 75-93; e a Ead., Alla fine dell’ultimo viaggio: Anita, il Generale e i loro figli, in E. Franzina (a cura di), Garibaldi e il Risorgimento nel Veneto. Spunti e appunti a ridosso di due anniversari, Cierre, Caselle di Sommacampagna 2011, pp. 225-237.

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