Introduzione della nuova edizione (da me curata) del libro di Carlo Pignatti Morano La vita di Nazario Sauro e il martirio dell'eroe (Il Fiorino 2017)
La scoperta di questo libro su Nazario Sauro – e, di conseguenza,
il desiderio di pubblicarne una seconda edizione – risale all’estate del 2016.
Stavo conducendo ricerche in archivio per la stesura del mio Camerata Garibaldi
(che sarebbe uscito poco meno di un anno dopo), allorché, consultando la
«Gazzetta dell’Emilia» del 1922, mi imbattei in un articolo intitolato Gli eroismi, il processo e il martirio di
Nazario Sauro nel libro documentato di un ufficiale modenese.
Leggendolo, scoprii che l’ufficiale modenese in questione rispondeva al nome di
Carlo Pignatti Morano: si trattava cioè – come in poco tempo ebbi modo di
verificare – del fratello del mio bisnonno da parte di madre, che dopo una
lunga carriera in marina e una medaglia d’argento al valore militare fu
nominato senatore nel 1939, cinque anni prima della morte (sopraggiunta a
Firenze nell’estate del 1944).
L’articolo esordiva in un modo che trovai accattivante:
«Un ufficiale superiore della nostra Marina, Carlo Pignatti Morano di Modena,
ha compilato un libro, che rimarrà nella storia del nostro Risorgimento:
rimarrà, anche, nella storia delle grandi anime».
Di questo incipit mi colpirono
essenzialmente due aspetti. In primo luogo la sottolineatura della “modenesità”
del biografo di Nazario Sauro: è curioso – pensai – che le gesta di un eroe
della Grande Guerra, menzionato finanche nella celeberrima Leggenda del Piave, siano state narrate da un mio concittadino, per
giunta membro della mia famiglia. Subito dopo, tuttavia, mi soffermai a
riflettere brevemente sulla parola «Risorgimento», che può apparire un tantino
fuori luogo nel contesto del primo conflitto mondiale. Oggi infatti siamo
abituati a considerare risorgimentali gli avvenimenti che precedettero e
immediatamente seguirono il conseguimento dell’unità nazionale, ed è sufficiente
sfogliare un qualunque manuale di storia – liceale o universitario – per
verificare che i capitoli dedicati al
Risorgimento si arrestano al 1866 (terza guerra di indipendenza) o, tutt’al
più, al 1870 (breccia di Porta Pia). Tuttavia, per un italiano del 1922 Nazario
Sauro era da annoverare tra i martiri del Risorgimento, giacché la vittoria di
quattro anni prima aveva finalmente portato al completamento del processo di
unificazione nazionale, attraverso il congiungimento alla patria delle
cosiddette «terre irredente». Questa considerazione, sulla quale tornerò, mi
parve di non poco conto.
Al contrario dell’incipit,
il resto dell’articolo non era particolarmente stimolante. Si trattava infatti
di una classica recensione, contenente nulla di più degli episodi salienti
della vita di Nazario Sauro. In pratica, un riassuntino. Ciò che mi colpì, invece,
fu la constatazione che potei fare subito dopo: digitando il titolo del volume
del mio avo sul sito dell’OPAC (Online Public Access Catalogue) modenese,
realizzai che nelle biblioteche dell’intera provincia il libro era (ed è
tuttora) introvabile. Il che mi parve davvero incredibile. La vita di Nazario Sauro e il martirio dell’eroe di Carlo Pignatti
Morano fu stampata nel 1922 da Treves, editore tra i più prestigiosi
dell’epoca, nel cui catalogo figuravano opere di scrittori del calibro di
Edmondo De Amicis, Grazia Deledda, Ippolito Nievo, Luigi Pirandello e Giovanni
Verga: come
era possibile, quindi, che nessuna biblioteca modenese ne custodisse una copia?
Ricontrollai più volte, ma l’esito delle mie ricerche rimase sempre lo stesso.
Di lì a qualche giorno riuscii comunque a procurarmi il
libro, acquistandolo su internet. Il volume consta di 217 pagine (più 5 della Prefazione dell’autore e altrettante per
gli indici) e di 50 immagini in bianco e nero. Sfogliandolo, pensai immediatamente
che si trattasse di un lavoro ben fatto: i documenti che stanno alla base della
ricerca sono infatti citati con precisione, mentre i ricordi di Carlo Pignatti
Morano – che fu compagno d’armi di Sauro – non solo non appesantiscono la
narrazione, ma favoriscono anzi la comprensione degli avvenimenti. La sola
lacuna è rappresentata dall’assenza di un indice dei nomi, a mio avviso utile
per inquadrare rapidamente i protagonisti delle diverse vicende.
Queste impressioni trovarono in seguito una preziosissima
conferma nelle parole che potei scambiare per telefono con Romano Sauro, nipote
dell’eroe, autore di una bella biografia del nonno uscita per i tipi de La Musa
Talìa nel 2013. Non solo, infatti – mi
disse il discendente del marinaio capodistriano –, la biografia di Carlo
Pignatti Morano è accurata, ma è senza dubbio la migliore di quelle pubblicate
negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, troppo intrise di retorica
patriottarda di stampo fascista.
Questa opinione – che io peraltro condivido – necessita
di un breve chiarimento. Anche il libro dell’ufficiale modenese fa alcune
concessioni alla retorica, e non potrebbe essere altrimenti. Lo stile
dell’epoca era quello: sarebbe da ingenui meravigliarsene. Suggerisco un solo
esempio, che mi pare chiarificatore. In tutto il volume, la parola «odio» (con
i suoi derivati) compare ben 16 volte, ovviamente riferita per lo più
all’Austria. Ora, è comprensibile che per un lettore del nostro secolo frasi
come «Tanto era il suo odio per tutto quello che era austriaco» risultino
stonate, fuori luogo e gratuitamente aggressive. Per fare chiarezza, è necessario
però collocare l’opera nel suo tempo, in un contesto storico, cioè,
contrassegnato da fortissime contrapposizioni e da grandi passioni collettive.
Il senso dell’odio antiaustriaco di Sauro è reso efficacemente da un altro
biografo dell’eroe, Giovanni Quarantotto:
[All’Italia] egli [Sauro]
contrapponeva una forza oscura, perversa, brutale: l’Austria. Italia ed Austria
erano per lui i termini antitetici per eccellenza. L’una la luce, l’altra la
tenebra; l’una il bene, l’altra il male; l’una il diritto, l’altra il sopruso.
E all’Italia dava egli tutto il suo amore e su l’Austria riversava tutto il suo
odio; amore ed odio che non conobbero mai tregua né misura e che furono gli
alterni stimoli, le costanti leggi della sua vita.
Pur tenuto conto della particolare situazione dell’Istria
– terra «irredenta» –, all’origine di questa antitesi Italia-Austria stava
anche una radicata tradizione culturale riconducibile al Risorgimento e,
soprattutto, a decenni di propaganda liberale. Per gli uomini della generazione
di Sauro – nato nel 1880 –, le vicende che avevano condotto all’unità della
penisola costituivano un bagaglio di leggende e di miti – di fatto inscindibili
dall’idea di patria – dai quali concretamente dipendeva il senso di appartenenza
alla comunità nazionale. Personaggi come Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio
Emanuele II erano descritti come autentici eroi del riscatto di un popolo
stanco di subire le vessazioni delle potenze straniere. E l’Austria, in
quest’ottica, rappresentava il nemico per antonomasia, il padrone-tiranno che
imprigiona e impicca i patrioti (si pensi a Pellico e Maroncelli e ai martiri
di Belfiore), che reprime nel sangue le insurrezioni popolari (come nel caso
delle dieci giornate di Brescia), che umilia e schernisce l’Italia, considerata
da Metternich una semplice «espressione geografica».
Il Risorgimento, pertanto, era il mito fondante della
nazione, intendendo con la parola «mito» – come bene chiarisce Patrizia Laurano
– il racconto di «un fatto esemplare, idealizzato […] capace di polarizzare le
aspirazioni di una comunità o di un’epoca, elevandosi a simbolo privilegiato e
trascendente», oppure un «insieme di credenze, di solito messe in circolazione
sotto forma di racconto, concepite da una comunità riguardo a se stessa basate
su percezioni piuttosto che su verità accertate storicamente».
Garibaldi, per esempio, si presentava così ai lettori di Cuore di Edmondo De Amicis, grande
capolavoro della letteratura per l’infanzia uscito nel 1886:
Egli aveva la fiamma
dell’eroismo e il genio della guerra. Combatté in quaranta combattimenti e ne
vinse trentasette. Quando non combatté, lavorò per vivere o si chiuse in
un’isola solitaria a coltivare la terra. Egli fu maestro, marinaio, operaio,
negoziante, soldato, generale, dittatore. Era grande, semplice e buono. Odiava
tutti gli oppressori, amava tutti i popoli, proteggeva tutti i deboli; non
aveva altra aspirazione che il bene, rifiutava gli onori, disprezzava la morte,
adorava l’Italia. Quando gettava un grido di guerra, legioni di valorosi accorrevano
a lui da ogni parte: signori lasciavano i palazzi, operai le officine, giovanetti
le scuole per andar a combattere al sole della sua gloria. In guerra portava
una camicia rossa. Era forte, biondo, bello. Sui campi di battaglia era un
fulmine, negli affetti un fanciullo, nei dolori un santo.
Questo dunque era il mito: un racconto di fondazione e di
formazione. Ha scritto in un recente volume Marcello Veneziani:
Il mito è il racconto
sorgivo sulla nascita della vita, del pensiero e del mondo.
Il mito attesta l’origine
e tramanda la fondazione alla luce di un Inizio. In principio era il mito. Il
mito è per la storia quel che l’anima è per il corpo.
Il mito è la vista
ulteriore che trasforma il nostro sguardo e apre altri orizzonti.
Per gli italiani della generazione di Sauro, pertanto, il
mito del Risorgimento era il racconto eroico della rinascita della patria. Un
racconto che entusiasmava i giovani e commuoveva gli anziani, che suscitava
emozioni e creava aspettative. Per questo la Grande Guerra fu considerata da
molti italiani un’occasione imperdibile per completare il processo di
unificazione della penisola e scacciare, finalmente, gli austriaci dal suolo
nazionale. Senza il mito del Risorgimento, l’irredentismo – e con esso la
figura di Nazario Sauro – è inspiegabile.
Sul concetto di irredentismo fa chiarezza Giovanni
Sabbatucci:
«Irredente», ossia non
redente, non salvate, non liberate sono quelle terre e quelle popolazioni che
si trovano a essere soggette al dominio politico di uno Stato diverso da quello
cui le destinerebbe la nazionalità. Irredentismo è il movimento o la corrente
politica che si adopera per porre rimedio a questa ingiustizia e per riunire
quelle terre e quelle popolazioni alla madrepatria. Il concetto di irredentismo
presuppone dunque che vi sia un ordine «naturale» dei popoli da ripristinare e
che questo ordine sia fondato sul principio di nazionalità. La parola e il
concetto sono infatti tipici prodotti del nazionalismo ottocentesco, di matrice
romantica e mazziniana.
Fu Matteo Renato Imbriani, garibaldino che aveva partecipato
alla spedizione dei Mille, a coniare nel 1877 l’espressione «terre irredente»
con riferimento al Trentino e alla Venezia Giulia. L’aggettivo «irredento» – da
cui il sostantivo «irredentismo», probabilmente di derivazione austriaca, da
intendersi originariamente in senso dispregiativo – nacque dunque per definire
(con quel tono aulico che era tipico della cultura di matrice mazziniana) una
lotta tesa a raggiungere la piena indipendenza nazionale. Una lotta che
tuttavia – scrive Sabbatucci – «faceva appello più al sentimento che alla
logica, si fondava su un richiamo identitario più che su principi
universalmente applicabili».
L’irredentismo italiano palesava infatti alcune evidenti
incongruenze di fondo. Per quale motivo, per esempio, venivano rivendicate con
maggiore convinzione le terre soggette all’Austria rispetto a quelle
appartenenti alla Francia (Corsica, Nizza e Savoia)? Ma soprattutto: come
gestire le minoranze etniche (si pensi agli slavi dell’Istria) che si sarebbero
create nei territori redenti? Superfluo dire che a queste domande gli
irredentisti dell’epoca rispondevano per lo più con una superficialità che, da
un lato, era figlia della tradizione austrofoba ereditata dal Risorgimento, e
dall’altro finiva per sfociare nel ragionamento apodittico secondo cui –
ironizza Sabbatucci – «le terre irredente devono essere annesse all’Italia
perché sono italiane e sono italiane perché devono essere annesse all’Italia».
In definitiva, ciò che preme rilevare è che
l’irredentismo – dopo decenni di stasi, contrassegnati dalla pacifica
coesistenza con l’Austria in nome dell’alleanza stipulata nel 1882 – conobbe un
clamoroso rilancio nel 1914 poiché era radicato in profondità nell’immaginario
collettivo della nazione. Esso faceva appello a sentimenti e stati d’animo di
fatto inscindibili dal mito del Risorgimento, consustanziali cioè rispetto a un
racconto che all’Impero asburgico assegnava il ruolo di “cattivo” per eccellenza.
Il successo delle «radiose giornate di maggio» del 1915 si comprende perciò
solo analizzando i contenuti di una propaganda vecchia di oltre mezzo secolo e
tenendo conto del fatto che un messaggio politico, per essere realmente efficace,
non deve necessariamente fondarsi su solide argomentazioni (il che, a ben
vedere, non accade quasi mai), ma al contrario deve scuotere l’animo delle
persone cui è rivolto. Per questo è bene che sia semplice e diretto. In
quest’ottica, l’Austria è il secolare nemico e Francesco Giuseppe è
l’«imperatore degli impiccati», come griderà Sauro in punto di morte: inutile
girarci intorno.
La propaganda – e il fenomeno si acuì con il
proseguimento della guerra – raffigurava i nemici come esseri mostruosi, selvaggi
e infidi. Ha scritto al riguardo Angelo Ventrone:
La propaganda politica […]
si fonda molto spesso sulla netta divisione della realtà in bene e male, amico
e nemico; e ciò è tanto più vero in caso di guerra, visto che lo scopo
esplicito diventa allora quello di spingere la comunità all’unione e
all’accantonamento di ogni divergenza per far fronte al comune pericolo. Il
legame tra elemento morale ed elemento fisico diventa essenziale: la bruttezza
o la deformità fisica, infatti, servono a descrivere i segni di una più profonda
e sostanziale bruttura morale, e l’enfatizzazione dei misfatti del nemico e
della sua irriducibile diversità hanno l’obiettivo di accrescere l’odio nei
suoi confronti e di legittimare i sacrifici che il conflitto richiede. In tali
casi, l’immagine diventa «cruda» e le parole «nude»; il linguaggio si fa
brutale, non dissimula, ma esalta la violenza, incita all’odio. La guerra,
infatti, non ammette sfumature e quindi tende a semplificare i messaggi: non si
vuole più parlare, ma solo far vedere e sentire. La parola raziocinante tende a
indietreggiare, la frase a scomparire. Dominano immagini forti, aggressive,
eccessive. Lo scopo non è di indurre alla riflessione ma all’azione.
Questo dunque era il contesto nel quale vissero Nazario
Sauro e il suo biografo Carlo Pignatti Morano. Sarebbe un errore per il lettore
di oggi giudicare certe espressioni «nude» e «crude» contenute in un libro del
1922 senza tenere conto del clima culturale di quegli anni. Un clima di
esaltazione e fervore patriottico senza precedenti, perché mai si era vista in
Europa una guerra come quella del 1914-18.
Ciò premesso, non bisogna comunque ignorare che questo
stato d’animo collettivo, evidentemente condizionato dalla stampa e dalla
propaganda, era riscontrabile pressoché solo nelle classi medio-alte. È bene
precisare, infatti, che in Italia i quotidiani avevano una diffusione limitata;
erano pensati e strutturati per un pubblico ristretto e borghese, non certo per
i ceti popolari, i quali infatti furono poco o nulla contagiati dal patriottismo
delle grandi testate. Le tirature dei giornali erano basse (basti dire che nel
1913 il «Corriere della Sera» superava appena le 200.000 copie), e persino gli
editori erano il più delle volte «non puri», ossia approdavano «all’editoria
mantenendo interessi preminenti in altri comparti produttivi».
La stampa era pertanto, in buona sostanza, elitaria: nel biennio 1914-15 essa
da un lato influenzò l’opinione pubblica borghese in favore dell’interventismo;
ma dall’altro fu a sua volta condizionata dal nazionalismo che il Risorgimento
aveva lasciato in eredità alle generazioni nate dopo l’unità. Per certi versi,
il primo conflitto mondiale funzionò come l’innesco di un ordigno pronto ad esplodere
da tempo: era come se dopo decenni di propaganda tutta incentrata su episodi di
eroismo militare, sul valore del sacrificio, sull’odio antiaustriaco (si pensi anche
all’esempio di Goffredo Mameli e al Canto
degli Italiani),
fosse giunta l’ora di mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti. Per molti
di coloro che erano imbevuti della cultura del tempo, sottrarsi alla prova
suprema della guerra era sinonimo di viltà e disonore, tanto che anche chi non
manifestava aperto entusiasmo spesso preferiva «coltivare la virtù cristiana
della rassegnazione»,
non osando mettere in dubbio la sacralità della patria.
A testimonianza del clima di eccezionale fervore
patriottico che si respirava all’indomani dello scoppio del primo conflitto
mondiale, cito un esempio singolare. Luigi Bertelli, in arte Vamba, il celebre
autore del Giornalino di Gian Burrasca,
nel 1915 era troppo anziano per arruolarsi. Era nato infatti nel 1860, e
apparteneva pertanto a quella generazione che aveva ricevuto in eredità gli
ideali del Risorgimento ed era stata educata secondo i dettami di una religione
civile basata sul concetto di sacralizzazione della nazione.
Convinto mazziniano, Bertelli era approdato all’irredentismo a partire,
quantomeno, dal 1906, anno in cui uscì il primo numero del «Giornalino della
Domenica», periodico per ragazzi fondato con l’intento non secondario di
offrire modelli edificanti (come, per esempio, Carducci, Garibaldi e De Amicis,
cui furono dedicati interi numeri). Come sottolinea Antonio Gibelli, il
«Giornalino» di Vamba «cercava di educare all’odio antiaustriaco, e configurava
una forma inedita di partecipazione dei bambini alla politica, non quella delle
“chiacchere parlamentari” ma quella “buona e santa” del nazionalismo».
Con l’ingresso dell’Italia nel conflitto, Bertelli si
trovò dunque nella condizione di voler a tutti i costi dare il proprio contributo
alla causa bellica, pur senza poter materialmente imbracciare il fucile per
sopraggiunti limiti d’età. Prese allora una curiosa decisione. Siccome era in
corso di stampa un suo poemetto giocoso – scritto ventisette anni prima –
dedicato al Lambrusco di Sorbara, decise di devolvere in beneficenza a favore
della causa bellica il ricavato della vendita. Così, nel 1915, Vamba concludeva
la Prefazione al volumetto:
Io non avendo né splendor d’oro né vigor di braccio da
offrire alla Patria, ho proposto all’Università Popolare [di Bologna], che
benevolmente ha accettato, di dedicare la pubblicazione, già in corso, di questo
poemetto, ai fini della beneficenza.
[…] In tal modo l’umile
lavoro mio, arricchito dal sorriso dell’arte e sotto l’egida di una istituzione
tanto benemerita quale si è la Università Popolare, raggiungerà, lo spero, il
fine propostosi.
E a me procurerà l’ambita
soddisfazione di potere concorrere, sia pure in minima parte, all’innalzamento
di quel glorioso edificio che avrà il suo compimento nel dì della immancabile nostra vittoria.
Quel dì
colmo il bicchier del buon Sorbara,
brinderemo a Trieste, Trento e Zara!
Quello di Bertelli mi pare dunque un caso significativo
di come la guerra avesse sedotto alla causa interventista e irredentista
numerosi italiani, imbevuti di una cultura pluridecennale di stampo
marcatamente antiaustriaco, e per questo smaniosi di passare concretamente
all’azione per il bene della patria. Vamba (come Nazario Sauro) apparteneva a una
generazione di mezzo che non aveva vissuto il Risorgimento, ma ne aveva recepito
i valori. Per i nati dopo il 1860, il mito degli eroi del passato costituiva
una presenza ingombrante, con il risultato che non pochi si
accostarono al patriottismo nazionalista, abbagliati da quella che Piero
Calamandrei definì «nostalgia letteraria e romantica» di un tempo che gli
stessi giovani temevano destinato «a non ritornare mai più».
Bertelli – e con lui numerosi italiani – si convinse dunque che nel maggio del
1915 fosse finalmente giunta l’ora del cimento. E benché non potesse
materialmente combattere il nemico, in cuor suo non poteva accettare di rimanere
totalmente estraneo al fascino di una guerra sognata «come sfrenata corsa dietro
bandiere sventolanti».
Se ho indugiato su questo aspetto del clima che si
respirava in Italia nel biennio 1914-15 è perché ritengo sia fondamentale
calarsi nella cultura dell’epoca per poter apprezzare un libro che sta per
compiere un secolo di vita. Il volume di Carlo Pignatti Morano, infatti, va
letto come un prezioso documento storico, oltre che come biografia di Nazario
Sauro. Solo contestualizzandolo è possibile apprezzare l’entusiasmo – simile a
quello di Bertelli – che ne anima le pagine.
Fatta questa premessa, è bene chiarire ulteriormente le motivazioni
che stanno all’origine della decisione di pubblicare una seconda edizione del
lavoro di Carlo Pignatti Morano. Come anticipato, vi sono ragioni
“campanilistico-familiari” e la volontà di rendere finalmente disponibile al
pubblico modenese (ma non solo, ovviamente) un libro che merita di essere
conosciuto. C’è però anche dell’altro. Studiando la figura di Nazario Sauro mi
sono infatti persuaso che dietro la coltre di retorica che ha a lungo ricoperto
l’immagine mitica del marinaio di Capodistria sia possibile scoprire un
personaggio problematico, non dico attuale – perché va da sé che i valori (o
disvalori?) della nostra epoca non siano più compatibili con quelli di un
volontario di guerra del 1915 –, ma di certo sorprendentemente interessante. Il
Sauro che conoscevo prima era essenzialmente quello della Leggenda del Piave, ossia il martire che, insieme con Guglielmo Oberdan
e Cesare Battisti, nei versi conclusivi del celebre canto forma un’ideale triade
eroica dell’irredentismo italiano:
Si vide il Piave rigonfiar
le sponde,
e come i fanti combatteron
l’onde…
Rosso di sangue del nemico
altero,
il Piave comandò:
«Indietro va’,
straniero!».
Indietreggiò il nemico
fino a Trieste, fino a
Trento…
E la vittoria sciolse le
ali al vento!
Fu sacro il patto antico:
tra le schiere, furon
visti
risorgere Oberdan, Sauro,
Battisti…
Infranse, alfin, l’italico
valore
le forche e l’armi
dell’Impiccatore!
Sicure l’Alpi… Libere le
sponde…
E tacque il Piave: si
placaron l’onde…
Sul patrio suolo, vinti i
torvi Imperi,
la Pace non trovò né
oppressi, né stranieri!
Sauro ovviamente fu anche questo: un eroe istriano – e
quindi suddito austriaco – che si arruolò volontario nella marina italiana, cadde
prigioniero e venne condannato a morte per «alto tradimento». Tuttavia, è
lecito scorgere ben altro dietro il pomposo e retorico ritratto ufficiale
sedimentatosi nell’immaginario della nazione in particolare nel corso degli
anni Venti e Trenta del secolo scorso. Sauro, infatti, fu anzitutto un
combattente per la libertà – era considerato «il Garibaldi dell’Istria»
–, un uomo romanticamente disposto a donare se stesso per un ideale di
giustizia, un eroe – certo – non perché sposò una causa vincente, ma perché
seppe e volle morire per difendere ciò in cui credeva. Le lettere che nel 1915
indirizzò alla moglie e al primogenito Nino – presagendo il proprio destino
nelle mani dei carnefici austriaci – sono una prova evidente in tal senso. Esse
parlano dell’amore per l’Italia (e non dell’odio per il nemico), dei «nomi di
libertà» scelti per i cinque figli, del senso del dovere e della patria intesa
quale «plurale di padre».
Non c’è retorica, a ben vedere, in questi scritti, ma solo la grandezza di un
uomo che è pronto a morire per un ideale, semplicemente perché ritiene che sia
la cosa giusta da fare. Il dovere, in sostanza, va compiuto fino in fondo: è
questo – io credo – l’insegnamento più nobile ricavabile dalla vicenda di
Nazario Sauro. E con dovere non intendo quello nei confronti delle istituzioni,
bensì la volontà di obbedire al supremo, inappellabile giudice di ogni essere
umano: la coscienza. Tecnicamente, infatti, Sauro fu un traditore, giacché
impugnò le armi contro l’Austria pur essendo suddito di Francesco Giuseppe.
Seguendo questa logica, però, non si salva nessun rivoluzionario, nessun
combattente che intenda sovvertire un ordine costituito che ritiene ingiusto:
persino Stauffenberg formalmente tradì la patria attentando alla vita di
Hitler! Il punto quindi è un altro. Posto che il concetto di tradimento – come
bene evidenzia in un recente libro Marcello Flores – è sempre relativo
(il che implica che in ogni guerra, a seconda dei punti di vista, un partigiano
possa essere considerato un brigante o un patriota), Sauro va senz’altro
assolto perché obbedì alla propria coscienza di italiano fino al sacrificio
della vita. Del resto, come sottolinea giustamente il pronipote Francesco, se
il tradimento può essere solo intenzionale, nulla può essere imputato ad un
soldato che in assoluta buona fede combatté e morì per difendere i valori in
cui credeva.
Su questo tasto la biografia di Carlo Pignatti Morano
batte con insistenza. Per l’ufficiale modenese, Sauro era un eroe in quanto
incarnazione del senso del dovere. Ogni pagina trasuda ammirazione per il
marinaio capodistriano, anche in nome di un’amicizia – cementatasi nel contesto
del comune impegno bellico – che evidentemente andava oltre la banale
cordialità dei rapporti. È lo stesso Carlo Pignatti Morano a scriverlo nella Prefazione:
Nei mesi trascorsi insieme,
nella comunanza dei pensieri, dei pericoli e delle idealità, io posso ben dire
di averlo profondamente conosciuto, di averne apprezzato tutte le doti più
belle: l’ardimento, la tenacia, la bontà dell’animo quasi fanciullesca, il
patriottico entusiasmo. Egli mi dimostrava un rispettoso affetto perché vedeva
e sentiva di aver in me, più che un superiore, un amico, e mi confidava le sue
idee, i suoi progetti, tante volte fantastici, irrealizzabili, ed anche i suoi
affanni nei momenti di tristezza.
Dopo la morte di Sauro, Carlo Pignatti Morano – che «per
primo [ebbe] fra le mani l’incartamento austriaco, e [fece] indagini per la
ricostruzione della verità storica» –
frequentò a lungo la casa e la famiglia dell’eroe per raccogliere informazioni
utili alla stesura del suo libro. Anche Romano Sauro, nella sua bella biografia
del nonno, ci tiene a ricordarlo.
I due marinai, del resto, erano stati compagni d’armi, e in particolare avevano
recitato un ruolo da protagonisti nella cosiddetta “beffa di Parenzo” (il
modenese come ideatore del piano e il capodistriano come esecutore materiale).
Il libro che qui si ripresenta è dunque innanzitutto una
testimonianza diretta. Testimonianza ben documentata – dal momento che riporta
con scrupolo gli atti del processo di Pola caduti in mano italiana al termine
del conflitto –, che tuttavia rappresenta pur sempre un racconto “di parte”,
scritto da un protagonista di quegli anni, coinvolto in prima persona in alcune
delle vicende narrate. La precisazione è d’obbligo, indispensabile per poter
comprendere e apprezzare un libro che è esso stesso un prezioso documento
storico. Occorre perciò tenere presente che l’autore non è un narratore
distaccato, come prova, per esempio, un’accorata lettera indirizzata nel marzo
del 1921 all’onorevole Luigi Siciliani, nella quale l’ufficiale modenese –
desideroso di contribuire alla glorificazione dell’«ultimo Martire d’Italia» –
protestava contro la decisione del ministro della Marina di vietare la
pubblicazione dei documenti relativi al processo Sauro.
Ma chi era, in definitiva, Carlo Pignatti Morano? Nato a
Modena il 2 settembre 1869, il futuro biografo di Nazario Sauro frequentò
l’Accademia Navale di Livorno, conseguendo la nomina a guardiamarina nel 1890. Intrapresa
la carriera militare, prese parte alla guerra italo-turca del 1911-12 quale
comandante in 2ª della corazzata Sicilia.
Al momento dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale era in
comando della flottiglia torpediniere costiere dell’Alto Adriatico (incarico
che tenne fino all’aprile del 1918). Promosso capitano di vascello nel 1916, prese
parte a numerose azioni di guerra (tra cui il forzamento del canale di Fasana e
l’incursione nella rada di Trieste, che portò all’affondamento della corazzata
austriaca Wien), meritando per il
complesso della sua attività una medaglia d’argento al valore militare e le croci
di cavaliere e di ufficiale dell’ordine militare di Savoia. Nel 1920 lasciò il
servizio attivo per riduzione dei quadri, conseguendo successivamente nella
riserva navale le promozioni a contrammiraglio, ad ammiraglio di divisione e ad
ammiraglio di squadra (nel 1926). Nominato senatore nel 1939, morì a Firenze il
30 luglio 1944, pochi giorni prima della liberazione della città.
Carlo Pignatti Morano era dunque un militare, un uomo di
guerra. Oltre a questo dato, scorrendo la sua biografia deve saltare all’occhio
un altro elemento fondamentale: ovvero che aderì al fascismo, guadagnandosi
persino la nomina a senatore. Rispetto a questa considerazione, tuttavia, è bene
fare due precisazioni. La prima, ovvia, è legata alla cronologia. La vita di Nazario Sauro uscì nel 1922,
e quindi fu scritta prima dell’avvento di Mussolini al potere. È importante
sottolinearlo. Rispetto infatti alle pubblicazioni sullo stesso tema degli anni
Trenta, la biografia di Carlo Pignatti Morano è meno intrisa di retorica, risulta
più scorrevole, più ariosa, se mi si passa il termine. Il che non significa –
lo si è detto, ma vale la pena ribadirlo – che il libro dell’ufficiale modenese
sia scritto in uno stile asciutto e distaccato, sul modello della moderna
saggistica storica. Troviamo anche qui espressioni come «il sacro fuoco di fede
nei più alti destini della Patria»,
con le parole «fede» e «Patria» (rigorosamente con l’iniziale maiuscola) che in
effetti hanno già qualcosa di fascista. Tuttavia non si arriva ancora
all’estremo di un Arrigo Pozzi, che nel 1936 descrive Sauro come «un popolano
di quella razza generosa che, a Genova, colla sassata di un Balilla, mette in
fuga gli austriaci» (e
qui l’accento cade inesorabilmente, oltre che su Balilla, sulla parola «razza»,
subito seguita da un aggettivo – «generosa» – che contiene in sé l’esplicita rivendicazione
di una superiorità storica e culturale). In sostanza, schematizzando, il libro
di Carlo Pignatti Morano può essere tacciato di protofascismo, ma non di
fascismo. È una differenza apparentemente insignificante, che tuttavia non può
essere trascurata. Il Sauro che emerge dalle pagine dell’ufficiale modenese è
infatti essenzialmente un eroe di guerra, apprezzato soprattutto per doti quali
il coraggio e lo spirito di sacrificio. Di contro, il Sauro strumentalizzato
dal fascismo diventerà di lì a poco il simbolo di un’italianità imposta a tutti
i popoli di confine, l’incarnazione di un ideale eroico di superiorità razziale.
La seconda precisazione è di carattere congetturale. Pur
premettendo, infatti, di non essere riuscito a trovare testimonianze certe
relative alle intime convinzioni politiche di Carlo Pignatti Morano, è forse
lecito presumere che egli – di nobili natali ed estraneo, negli ultimi mesi di
vita, all’esperienza di Salò –
non fosse un fascista estremista. Si tratta – mi rendo conto – di una
considerazione di scarso valore, che tuttavia potrebbe parzialmente avvicinare
l’ufficiale modenese alla sensibilità della nostra epoca.
In definitiva, il senso di queste raccomandazioni mi pare
piuttosto evidente: quando si sfoglia un libro vecchio di un secolo, è
necessario calarsi nella mentalità del suo autore, onde evitare di equivocare
alcuni passaggi o, peggio ancora, di esprimere giudizi affrettati, viziati da
anacronismi. Carlo Pignatti Morano appartiene ad un’epoca i cui valori
dominanti sono tramontati (nel bene e nel male, si potrebbe aggiungere). Ciò
che era importante per lui può apparire vacuo o addirittura ingiusto a un
italiano del XXI secolo. Lo stesso Nazario Sauro, se non si va oltre la retorica
dell’eroismo di guerra, fatica ad emergere come personaggio “raccontabile”
nell’Italia antimilitarista, individualista e consumista dei giorni nostri.
La sfida che accompagna questa seconda edizione de La vita di Nazario Sauro è pertanto
duplice: far digerire al lettore un libro datato e suscitare interesse intorno
a una figura un tempo mitica, ma oggi per lo più dimenticata. Al riguardo,
sento di poter affermare con una certa sicurezza che l’italiano medio dei
nostri tempi non sia in grado di rispondere alla domanda «Chi era Nazario
Sauro?». Molti non saprebbero nemmeno collocarlo nel tempo e nello spazio. I
motivi di questa caduta nell’oblio sono in realtà piuttosto ovvi. Dopo il
crollo del regime e la dolorosa perdita dell’Istria all’indomani del secondo conflitto
mondiale, Sauro subì una sorta di damnatio
memoriae in quanto simbolo considerato eccessivamente compromesso con il
fascismo, dopo vent’anni di propaganda di regime. Vale la pena approfondire
brevemente questo tema.
Nel 1944, a Capodistria, i tedeschi rimossero il
monumento a Sauro inaugurato solennemente nove anni prima, «col pretesto che
gli aerei anglo-americani se ne servivano come punto di riferimento nelle
incursioni verso il nord». Nel
secondo dopoguerra fu smantellato il museo presso la casa natale di Sauro, e naturalmente
scomparve anche la lapide ricordo apposta sulla facciata nel 1919. Nel
1947, infine, pure la salma di Sauro dovette abbandonare Pola: con il passaggio
dell’Istria alla Jugoslavia di Tito, il 7 marzo la bara dell’eroe avvolta nel
tricolore fu imbarcata sulla motonave Toscana,
diretta a Venezia. Giunti nella città della Laguna, il 9 marzo i resti di Sauro
furono collocati nel Tempio Votivo del Lido di Venezia, dove riposano da allora.
Allo “smantellamento” materiale della memoria del
marinaio di Capodistria fece seguito il progressivo dissolvimento del mito, che
si tradusse anche in un sempre più marcato disinteresse storiografico. Cito un
dato che mi pare esemplificativo: digitando «Nazario Sauro» sul sito dell’OPAC
del Servizio Bibliotecario Nazionale compaiono 127 monografie, delle quali ben
84 si riferiscono a volumi stampati entro il 1945. In breve, dalla fine della
seconda guerra mondiale a oggi sono stati pubblicati solo 43 titoli contenenti
le parole «Nazario Sauro», in pratica poco più della metà di quelli usciti nel
trentennio 1916-1945. Giusto per avere un termine di paragone, Andrea Costa, pioniere
del socialismo italiano, mette insieme 138 titoli prima del 1945 (una cifra
quindi in linea con quella relativa a Sauro, tenendo conto del fatto che il
romagnolo morì sei anni prima del capodistriano) e ben 170 dal dopoguerra in
poi.
Il che costituisce una prova piuttosto eloquente dello spostamento di interesse
da parte della storiografia e della pubblicistica storica. Ancora oggi, per
esempio, manca una moderna ed esauriente biografia “accademica” di Nazario
Sauro, scritta cioè da un docente universitario, professionista nel campo degli
studi storici.
Rispetto a questo quadro, fa sicuramente eccezione la citata
monografia di Romano e Francesco Sauro, senza dubbio il miglior volume a
tutt’oggi disponibile sulla figura dell’eroe di Capodistria. Ai due autori,
infatti, va riconosciuto a mio giudizio il merito di aver messo in risalto il
lato umano dell’illustre avo, e soprattutto di aver posto l’accento sugli
ideali di libertà che animarono il suo impegno militare. Dalle loro pagine, in
sostanza, emerge un Nazario Sauro alleggerito della zavorra della retorica patriottarda.
I pregi di questo recente studio, tuttavia, rispondono
solo parzialmente all’esigenza di colmare un grave vuoto storiografico su una
figura chiave dell’irredentismo italiano. Nazario Sauro, in altre parole,
merita di essere riscoperto, e se l’operazione dei nipoti costituisce un primo
indiscutibile passo nella giusta direzione, certo non consente di chiudere la
questione. La mia speranza – va da sé – è che questa seconda edizione del
lavoro di Carlo Pignatti Morano contribuisca a risvegliare a più livelli
l’interesse su Sauro, e che possa magari fungere da sprone per successive
iniziative editoriali.
Auspico pertanto che
La vita di Nazario Sauro (libro-documento, come già anticipato) possa
rappresentare un ponte verso nuove ricerche e approfondimenti. Ho a cuore la
cosa dal momento che – sento di doverlo confessare – il mito eroico del
marinaio capodistriano mi ha affascinato fin dalle primissime letture che sono
all’origine di questo lavoro. Come italiano, mi imbarazza l’oblio che in gran
parte avvolge la figura di Sauro, e ancor più mi indignano alcuni velleitari
tentativi di screditarne l’immagine.
Ma se, ahimè, temo non ci sia cura per certo pseudo-giornalismo malato di scoop
sensazionalistici, al problema del silenzio storiografico è senz’altro
possibile ovviare.