venerdì 23 giugno 2023

Uve modenesi tra XVIII e XIX secolo. Confronto sinottico tra il censimento di uve di Francesco Pincetti (1752) e quello di Francesco Aggazzotti (1867)

 






Introduzione del libro Uve modenesi tra XVIII e XIX secolo, scritto a quattro mani con Gian Carlo Montanari (Il Fiorino 2018)



Questo libro nasce da un’intuizione di Gian Carlo Montanari, sempre attento ed abile a scovare curiosità e aneddoti di storia modenese. Ricordo che mi sottopose il suo progetto di lavoro all’incirca due anni fa: si trattava, nelle sue intenzioni, di confrontare il Catalogo delle uve di Francesco Aggazzotti (scritto del 1867) con un baccanale settecentesco dell’abate Francesco Pincetti, per mettere in risalto alcuni sorprendenti punti di contatto tra due opere tra loro così diverse e distanti nel tempo.

Come mi chiarì Montanari, l’obiettivo era offrire al lettore appassionato di vini e di storia locale uno spunto di riflessione molto preciso, racchiuso in sostanza in una semplice domanda: possibile che l’Aggazzotti, celebre viticoltore ottocentesco, primo sindaco di Formigine nella storia dell’Italia unita, per la stesura del suo Catalogo avesse utilizzato come fonte – forse addirittura come fonte primaria – un poemetto giocoso intitolato ai Vini modanesi, opera curiosa, a tratti spassosa, ma certo non di pregevole valore letterario?

A partire da questo interrogativo, il libro prese immediatamente forma nelle nostre menti. Montanari si sarebbe occupato del Pincetti, ed io dell’Aggazzotti. Occorreva, per prima cosa, presentare al lettore un profilo esauriente di queste due figure, al fine di poterle agevolmente collocare nel tempo e nello spazio. Nulla di particolarmente impegnativo, si badi: semplicemente un doppio ritratto, indispensabile per contestualizzare gli scritti che sono al centro della nostra trattazione.

Rispetto a questi ultimi, decidemmo di riportare integralmente solo il baccanale pincettiano, essenzialmente per la ragione che, trattandosi di un testo letterario, costituisce certamente una lettura più piacevole rispetto al trattato scientifico dell’Aggazzotti. Per facilitare la comprensione del poemetto, ci accordammo inoltre per la stesura di alcune note esplicative.

Per finire, stabilimmo che il Catalogo dell’Aggazzotti sarebbe stato approfondito nell’ultimo capitolo, dedicato al confronto tra le uve elencate dal formiginese e quelle citate dal Pincetti.

Questa, in definitiva, la gestazione del lavoro che qui si presenta. Ritengo doveroso chiarire che l’idea e l’impostazione che sono alla base di questo libro vengono da Montanari, cui va senza dubbio la maggior parte del merito per la riuscita finale dell’opera. Sono suoi – esclusivamente o in gran parte – i capitoli 1, 3 e 4; mentre è mio il capitolo 2. Pur essendo ovviamente presente la mano di entrambi nella stesura e nella revisione, avverto l’obbligo morale di “dare a Cesare quello che è di Cesare”, come si usa dire.

Concludo pertanto queste brevi note introduttive ringraziando di cuore Gian Carlo per avermi voluto al suo fianco nell’elaborazione e nella stesura di questo studio, fermo restando che la mia gratitudine nei suoi confronti risale ormai a diverso tempo fa. Ero fresco di laurea in storia, quando mi contattò per sottopormi un suo libro per una recensione su «Prima Pagina», quotidiano per il quale curavo una rubrica storico-letteraria. Ci conoscemmo così. Da allora ha sempre letto con interesse i miei scritti, segnalandoli ad enti, istituti e persone che difficilmente avrei potuto contattare senza la sua mediazione. Per tutto questo gli sarò sempre riconoscente.

 

Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

 

L’uva, le uve, i vini. Un tema affascinante che abbraccia la maggior parte della cultura del nostro splendido e martoriato (colpa nostra) pianeta, e cioè viene dagli albori della coscienza civile dell’umanità. Poi ci sono le vicende particolareggiate delle varie culture e siccome qui si parlerà alla fine soprattutto del territorio modenese, ci basta un accenno (proprio un piccolo accenno) alle culture ebraica, cristiana e latina. Di vino si parla nella Bibbia (Antico Testamento: ricordate Noè che prende una formidabile sbornia che gli farà maledire un figlio irrispettoso?[1]), e soprattutto si giunge alla divina figura di Gesù Cristo (Nuovo Testamento) che nell’Ultima Cena consuma coi suoi il pasto comunitario con pane e vino e dà l’ostia consacrata, centro irradiante di tutto il cristianesimo. E ci sarebbero nelle due parti del libro sacro ebraico-cristiano altre citazioni in cui l’uva la fa da protagonista.

Di vino è poi pregna la cultura greca che si fece addirittura un dio del vino (Dioniso-Bacco) e che del vino fa il centro-motore dei riti dionisiaci che uniscono sacro e profano. Poi ci sono gli eredi della grecità, i Romani; tutta una enorme sedimentazione di cultura latina che giunge fino a noi con l’attenzione costante all’agricoltura, e basti pensare al grande Virgilio[2] delle Georgiche e quindi soprattutto al Libro Secondo di esse ove tratta della coltivazione degli alberi; mentre i romani che accennarono al mondo delle uve sono tanti e bisognerebbe dire anche di Marco Porcio Catone (234-149 a.C.), di Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), di Columella (4-70 d.C.) e di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.)[3].

E se il vino può essere una grande medicina, all’opposto esiste un capitolo interessante nella storia del prodotto delle uve cui vogliamo, per la sua forza curiosa, qui accennare, ed è quello che mostra come, oltre a Bacco (e al Baccone che il poeta di corte modenese settecentesco Pincetti prenderà a guida per dire delle uve modenesi), ci siano stati nella storia tanti esagerati consumatori del buon lico, come viene definito in generale il vino. Ci furono formidabili bevitori passati alla storia (o leggenda), a iniziare da quel Milone di Crotone, celebre atleta che consumava in modo esagerato carne (che gli dava forza) e per questo beveva, pare, dieci litri di vino al giorno! Ancora diciamo di tre bei soggetti quali furono l’ateniese Diotimo detto l’Imbuto (!), il tarantino Filonide detto Quartino (!!) e (last but not least, perché il prodotto delle uve accomuna le passioni di uomo e donna) una rappresentante del gentil sesso, la cortigiana Gnatena che era indicata col soprannome di Cisterna (!!!).

Per finire questa breve ricognizione, ricordiamo che ad Alessandro il macedone (Magno) fu fatale una gran bevuta di vino schietto, mentre il romano Marco Antonio si auto condannò con la sua Cleopatra proprio gozzovigliando e bevendo smodatamente e perciò abbandonando i rigidi ma sani costumi dei severi e accorti avi.       

E veniamo al Medioevo: qui possiamo stringere il cerchio dei ragionamenti e disquisire del territorio padano che su vini, maiale e formaggi ha costruito buona parte delle sue fortune di sostentamento e di sviluppo economico. Tanto per dire di significati del bere padano, si può indicare un grande cronista del XIII secolo, un acuto e attento frate che è noto come Fra’ Salimbene de Adam da Parma (1221-1288 ca.), che nella sua Cronaca a un certo punto riporta:

 

E mastro Morando, che insegnava grammatica a Padova, ha scritto le lodi del vino secondo i suoi gusti con questi versi:

Vinum dulce gloriosum

pingue facit et carnosum

atque pectus àperit.

(Il vino dolce glorioso / rende pingue e carnoso / e sgombera il petto).

Et maturum, gustu plenum,

valde nobis est aménum

quia sensus àcuit.

(E maturo, pieno di sapore, / ci riesce assai gradevole, / perché acuisce i sensi).

Vinum forte, vinum purum

reddit hominem securum

et depellit frìgora.

(Il vino forte, il vino puro / rende l’uomo sicuro / e scaccia i brividi).

Sed acerbum linguas mordet,

intestina cuncta sordet

currumpendo corpora.

(Ma l’aspro le lingue morde / le interiora sporca / corrompendo i corpi).

Vinum vero quod est glàucum

potatorem facit ràucum

et frequenter mingere.

(Il vino che è di colore verdicchio / fa diventare rauco il bevitore / e lo fa orinare spesso).

Vinum vero turbulentum

solet dare corpus lentum

et colorem tingere.

(Il vino poi che è torbido / di solito rende pigro il corpo / e lo rende colorito).

Vinum rubeum subtile

non est reputandum vile,

nam colorem generat.

(Il vino rosso sottile / non è da reputarsi vile / perché genera colore).

Auro simile citrinum

valde fovet intestinum

et langores suffocat.

(Quello color limone simile all’oro / aiuta molto l’intestino / e soffoca i languori).

Alba lìmpha maledicta

sit a nobis interdicta,

quia splenem pròvocat.

(La linfa bianca maledetta / sia da noi interdetta / perché irrita la milza)[4].

 

Se volete, bazzecole, rispetto a ciò che di uve e vini si può dire, ma testimonianze di come in pieno Basso Medioevo i dotti di vino s’intendevano e discettavano. Ora, se questo è un singolare documento duecentesco, aggiungiamo che tanta opera di Salimbene accenna alle viti e ai prodotti vinicoli, e poi sappiamo che avanti nel tempo, tra fine Medioevo e inizi dell’Era Moderna, le cronache delle varie città e paesi della Padania sono cariche di accenni alle raccolte delle uve[5]. Il prodotto che per tante generazioni era stato curato e selezionato divenne da noi, come nel resto d’Italia e in tante parti d’Europa, una sinfonia di uve selezionate e in grado di fornire diversi e prelibati vini.

Per giungere alla nostra prima riflessione sull’opera settecentesca che fornì l’abate Francesco Pincetti, il quale la pubblicò, come diremo parlando di lui, nel 1752; per arrivare infine ad apprezzare non tanto un Baccanale (I vini modanesi), quanto come in questo testo il Pincetti abbia formato un’opera di puro diletto generata dal fatto che (probabilmente per mezzo dei lasciti dei suoi avi feudatari di Magreta per conto degli Este) l’abate si divertì, con i manoscritti che trattavano di uve. Manoscritti che riteneva giustamente preziosi e che gli fornirono l’estro (sulla scia di quanto nel suo secolo spesso gli eruditi facevano) per esaltare un prodotto della natura (l’uva, le uve), ma anche risultato dell’ingegno elaboratore degli uomini (i diversi vini frutto di sapienti osservazioni e innesti).

Questo l’intento del semplice (sia dal punto di vista artistico che da quello degli scopi) Baccanale dell’abate Francesco Pincetti; ma poi, a distanza di poco più d’un secolo dall’uscita del suo lavoro anonimo (che rischiò di non essergli mai attribuito), ecco che nel 1867 un vero e scientifico intenditore di uve, il possidente Francesco Aggazzotti (1811-1890), compie un’operazione di autentica catalogazione delle uve da lui prodotte e ci lascia un’opera (Catalogo descrittivo delle principali varietà di uve coltivate presso il Cav. Avv. Francesco Aggazzotti del Colombaro) che sembra il seguito di quella settecentesca del Pincetti che aveva sì scritto in poesia, ma, citando una settantina di uve, aveva visto al meglio esplicitato il suo lavoro per mezzo delle Annotazioni  di un collaboratore contemporaneo, il sassolese Niccolò Caula[6], che di ognuna delle uve citate diede un breve resoconto qualitativo.

Ordunque, il Baccanale pincettiano nomina le uve, e le note del Caula spiegano il valore e le qualità di esse, mentre poi un abbondante secolo dopo un tecnico-amatore appassionato come l’Aggazzotti compirà un’operazione di autentica catalogazione di settanta uve e ne comprenderà trenta di quelle nominate a suo tempo da Pincetti-Caula. L’operazione che noi in pieno XXI secolo proponiamo è il confronto dei due lavori con un esame comparato che ci pare interessante. Le uve e i vini da essi producibili sono un rimando dal passato a noi oggi, a circa due secoli e mezzo dal lavoro pincettiano e a un centinaio e mezzo d’anni da quello del saggio aggazzottiano. Al lettore consegniamo alcune nostre sistemazioni e considerazioni. 

 

Gian Carlo Montanari



[1] Si veda in Genesi, 9, 20-27.

[2] Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), il maggior poeta latino.

[3] Catone scrisse il più antico libro di prosa latina a noi giunto, il De Agricoltura; Varrone scrisse molti testi; Columella è un classico; Plinio il Vecchio fu storico e naturalista.

[4] Salimbene de Adam da Parma ci ha lasciato una splendida Cronaca di cui qui citiamo l’edizione di un confratello novecentesco ora scomparso, padre Berardo Rossi (Radio Tau, Bologna, 1987).

[5] Basti qui, per il modenese, citare a braccio le cronache dei due de’ Bianchi dei Lancellotti (Jacopino e Tommasino) e quella di Giovan Battista Spaccini.

[6] Apparteneva alla nota e influente famiglia sassolese che espresse anche il pittore Sigismondo proprio nell’epoca sua e dell’abate Pincetti.

La propaganda socialista nelle pagine de «Il Domani», periodico modenese del primo Novecento

 







Introduzione del mio libro La propaganda socialista (Terra e Identità 2014)



«Il domani sarà dei lavoratori, come l'oggi è della borghesia, come l'ieri fu della nobiltà e del clero». Con queste parole, che costituirono il motto posto subito sotto la testata fino all'agosto del 1912, il periodico socialista modenese «Il Domani» chiariva quali fossero gli obiettivi della sua azione di propaganda, e contemporaneamente individuava in maniera precisa gli avversari contro i quali essa era rivolta. Più che un programma politico, il nome del settimanale evocava le speranze di un partito giovane (quale era il PSI agli inizi del Novecento), speranze che spesso si tramutavano in incondizionata fede in un avvenire che – si credeva – avrebbe visto l'emancipazione del proletariato e il trionfo del socialismo.

Questo studio prende in esame le battaglie combattute dal socialismo italiano e modenese attraverso la lente di ingrandimento di un settimanale locale, che pure ebbe per buona parte della sua storia ventennale (fu stampato dal 1900 al 1921, escluso il biennio 1905-1906) l'ambizione di diffondere tra le masse operaie i grandi temi del socialismo nazionale ed europeo. Fu una storia, quella de «Il Domani», ricca di contrasti e colpi di scena, in un contesto provinciale di forti rivalità interne. Dalle controversie con «Luce» (il foglio riformista di Carpi) alle incomprensioni che nel 1921 portarono alla sua definitiva soppressione[1], il periodico del PSI modenese dovette sempre fare i conti con un partito spaccato al proprio interno, diviso in maniera netta tra riformisti e rivoluzionari, incapace di adottare – come invece si augurava Gregorio Agnini, animatore del primo «Il Domani» – una strategia politica unitaria. Nemmeno Nicola Bombacci, il rivoluzionario romagnolo giunto a Modena nel 1911 per dirigere la locale Camera del lavoro, riuscì, una volta assunta la direzione del giornale, a compattare il movimento operaio della provincia, a dispetto del forte impegno profuso in favore di un'azione propagandistica quanto mai tenace ed intransigente.

Se però vi furono difficoltà, ciò nulla toglie al valore di una lotta politica che non fu caratterizzata solo da sconfitte, ma al contrario consentì di sensibilizzare l'opinione pubblica su temi delicati quali lo sfruttamento delle classi popolari, delle donne e dei fanciulli, l'istruzione, il suffragio universale, le conseguenze di un esasperato protezionismo, della guerra e del caro viveri. Efficace strumento di divulgazione, «Il Domani» fece di questi argomenti un elemento centrale della sua azione di propaganda, affiancandoli a una costante campagna di denigrazione dell'avversario, spesso inquadrato secondo le stereotipo del borghese «succhione» o del prete moralmente indegno.

Scopo di questo studio è quello di illustrare la vita, i protagonisti e le battaglie de «Il Domani», con un occhio rivolto pure alle principali problematiche di carattere nazionale e internazionale per analizzare il modo con cui queste venivano presentate da un giornale di provincia. Il lavoro è suddiviso in tre capitoli. Il primo, di carattere introduttivo, descrive le dinamiche del socialismo modenese dalla fondazione del PSI all'avvento del fascismo; il secondo prende in esame il percorso politico intrapreso dal settimanale nel corso della sua storia, dalle battaglie per la costituzione di un organo di stampa provinciale, alla crisi che provocò la sospensione delle pubblicazioni; il terzo, infine, si concentra sull'azione propagandistica del periodico, sulle proposte socialiste ma soprattutto sui tre grandi temi dell'anticlericalismo, dell'antimilitarismo e del sentimento antiborghese. Seguono, nell'Appendice, la riproduzione fotografica delle vignette satiriche (che, come si vedrà, apparvero su «Il Domani» nei primi mesi del 1908) e la trascrizione di alcuni tra gli articoli più significativi.



[1] Una seconda versione de «Il Domani» fu pubblicata a partire dal 1945; tuttavia, dal momento che costituirebbe operazione priva di senso trattare come unitaria l'esperienza del periodico a dispetto dell'inevitabile frattura prodotta da oltre vent'anni di silenzio, nelle pagine di questo studio non si andrà oltre il 1921. Pare quindi corretto ricondurre a quella data la soppressione del settimanale, nella convinzione che il giornale del dopoguerra sarebbe casomai da considerarsi come una testata nuova ed autonoma.

Camerata Garibaldi. Lo sfruttamento propagandistico del mito dell'Eroe dei due mondi nella stampa fascista modenese








Introduzione del mio libro Camerata Garibaldi (Il Fiorino 2017)



Gli italiani del XX secolo hanno ripreso tra il 1914 e il 1918 […] la marcia che Garibaldi nel 1866 interruppe a Bezzecca, col suo laconico e drammatico «Obbedisco» e l’hanno continuata fino al Brennero, sino a Trieste, a Fiume, a Zara, sul culmine del Nevoso, sull’altra sponda dell’Adriatico.

Le camicie nere che seppero lottare e morire negli anni dell’umiliazione, sono anche politicamente sulla linea ideale delle camicie rosse e del loro condottiero. Durante tutta la sua vita egli ebbe il cuore infiammato da una sola passione: l’unità e l’indipendenza della patria. Uomini, sette, partiti, ideologie e declamazioni di assemblee le quali ultime Garibaldi disdegnò, propugnatore come egli era delle «illimitatissime» dittature, nei tempi difficili, mai lo piegarono, né distolsero da questa meta suprema.

La vera, la sovrana grandezza di Garibaldi è in questo suo carattere di eroe nazionale, nato dal popolo e, in pace e in guerra, sempre rimasto col popolo. Le guerriglie d’America non sono che un preludio, Digione un epilogo. Fra i due periodi giganteggia Garibaldi, che ha un solo pensiero, un solo programma, una sola fede: l’Italia.

Benito Mussolini

 

 

Uno degli aspetti più sorprendenti del personaggio Garibaldi è senza dubbio la polivalenza politica del suo mito. Pochi leader della nostra storia più recente sono assurti a icona in modo tanto trasversale, e forse nessuno ha subito un processo di idealizzazione anche solo paragonabile a quello che ha riguardato l’Eroe dei due mondi.

«Rivoluzionario disciplinato» – come è stato definito[1] –, Garibaldi ha saputo influenzare partiti e correnti politiche sorti anche molto dopo la sua morte, diventando di fatto un punto di riferimento simbolico per i repubblicani, per i liberali e i democratici ottocenteschi, per i socialisti, per i fascisti, per i comunisti e, più in generale, per chiunque intendesse contrapporsi, in un modo o nell’altro, all’ordine costituito. Gli unici che non abbiano mai tentato una decisa appropriazione propagandistica del culto del Nizzardo sono stati i cattolici, evidentemente a disagio – per usare un eufemismo – con l’acceso anticlericalismo di un uomo che non fece mai mistero della propria avversione al papato. Ma in fondo, se si guarda con attenzione, non è del tutto vero che il mondo cattolico sia sempre stato immune dal contagio della mitologia garibaldina, se non altro per l’ovvia ragione che, a lungo andare, denigrare un eroe nazionale può risultare controproducente. Sono andati perciò in questa direzione i tentativi di “smascheramento” del Garibaldi delle sinistre nel corso della campagna elettorale del 1948, allorché la Democrazia Cristiana si vide costretta a svelare il vero volto dell’uomo la cui effigie era stata scelta da PCI e PSI quale simbolo del Fronte popolare. Tra i cattolici, in sostanza, giacché non era pensabile una acritica appropriazione del mito del Generale, si fece strada la convinzione che fosse quantomeno opportuno mettere in cattiva luce il Garibaldi “avversario”, dietro il quale si celava, in realtà, l’oscura presenza di Stalin.

Questa trasversalità non impedisce, ad ogni modo, di riconoscere alcuni tratti ricorrenti nelle varie versioni del mito dell’Eroe dei due mondi. A lungo (e in parte ancora oggi) Garibaldi è stato infatti apprezzato essenzialmente per doti umane e qualità morali – come il coraggio, l’onestà e il disinteresse per il denaro – rispetto alle quali è facile esprimere incondizionato apprezzamento. Nel Generale, in sostanza, una radicata corrente di pensiero ha voluto riscontrare l’archetipo dell’eroe “del popolo”, lontano dagli interessi materiali della politica, poco istruito ma generoso, carismatico ed in sintonia di ideali con gli “ultimi”. Garibaldi stesso – come ha messo in evidenza Lucy Riall – ebbe un ruolo di prim’ordine nella costruzione del proprio mito, assecondando – con il modo di porsi, con l’abbigliamento stravagante, con lo stile di vita forse un po’ stereotipatamente rivoluzionario – l’«ampio desiderio, tipico di quell’epoca, di eroi romantici e di storie avventurose»[2].

Nell’accrescere la popolarità del Nizzardo furono ovviamente decisive le vittorie militari, unica fonte di legittimazione politica per un uomo che, di fatto, fu al potere per soli pochi mesi, nel corso della campagna antiborbonica del 1860. Ma se queste contribuirono in modo determinante a consolidarne il mito, certamente furono le qualità morali di cui si è detto a perpetuare un’immagine accattivante di Garibaldi e a far sì che essa si diffondesse così capillarmente. Detto altrimenti, il Generale rappresentò per diverse generazioni la sintesi delle virtù che il pensare comune identificava come tipicamente italiane (o meglio: delle virtù che ogni buon italiano avrebbe dovuto possedere).

Oggi, con tutta evidenza, il mito di Garibaldi è in gran parte tramontato, come dimostrano le numerose invettive di cui è continuamente fatto bersaglio da parte – ancora una volta – dei cattolici e degli ambienti leghisti, “neoborbonici” o, più in generale, secessionisti. Anzi, non ci si discosta troppo dal vero se si afferma che il mito è stato soppiantato da un antimito, il che è comunque un fatto degno di nota, indice se non altro di una longevità che sarebbe un errore non ascrivere in parte proprio al fascino che ha circondato per tanto tempo la figura di Garibaldi. Una figura – è bene precisarlo – che ha sempre diviso, e che a dispetto di una popolarità capace di oltrepassare i confini nazionali non è mai riuscita a mettere realmente tutti d’accordo. Poi, certo: l’agiografia dell’eroe ha nettamente prevalso – specialmente fino alla seconda guerra mondiale – su un approccio più critico o dichiaratamente ostile; ma è un dato di fatto che un totale consenso nei confronti del mito garibaldino non ci sia mai stato.

E del resto è proprio questa, a ben vedere, la ragione per cui il Nizzardo ha avuto così tanti volti. Se sono esistiti tanti Garibaldi (quello repubblicano e mazziniano, quello monarchico dell’«Obbedisco», quello rivoluzionario dei socialisti e del fascismo delle origini, quello moderato, quello anticlericale e quello essenzialmente patriottico, tutti con molteplici sfaccettature), è anche perché nei confronti del Nizzardo non c’è mai stata uniformità di giudizio. Il che non deve indurre a pensare che il Generale non avesse una sua coerenza o che fosse nient’altro che un rozzo avventuriero: molto più semplicemente, Garibaldi fu un personaggio così straordinario – servì in sei diversi eserciti, fu membro di cinque Parlamenti, viaggiò come pochissimi uomini del suo tempo (e non solo), fu arrestato nove volte, fu condannato a morte, fu acclamato come eroe nel 1864 in occasione di un viaggio trionfale a Londra (nella capitale della nazione che era l’equivalente degli odierni Stati Uniti), ebbe in sostanza una vita irripetibile[3] – che qualunque etichetta sarebbe per lui riduttiva.

Lo stesso fascismo, oggetto di studio in queste pagine, conobbe diverse versioni del mito dell’Eroe dei due mondi, dapprima – come anticipato – icona rivoluzionaria, poi progressivamente istituzionalizzato quale suprema incarnazione dell’ideale patriottico, quindi esaltato come grande condottiero negli anni delle guerre del duce, infine, durante l’esperienza della Repubblica sociale italiana, celebrato quale fedele interprete delle virtù repubblicane, nel contesto di un preteso ritorno alle origini in opposizione alla monarchia sabauda “traditrice”. Con tutta evidenza siamo di fronte a un percorso per certi versi sorprendente, che testimonia a sua volta della poliedricità della dittatura mussoliniana e consente di far luce sulle strategie comunicative di una propaganda che aveva l’ambizione di raggiungere in modo totalitario ogni singolo abitante della penisola.

Nello specifico, oggetto di questo studio è la strumentalizzazione del mito di Garibaldi nella stampa fascista (o fascistizzata, dopo le leggi del 1926) modenese. Si tratta di una scelta che presuppone dei limiti nel lavoro di scavo in archivio – limiti che sono legati principalmente alla decisione di concentrare l’attenzione solo su fonti prodotte entro i confini della provincia di Modena –, ma che forse proprio per questo ha il vantaggio di offrire una trattazione esaustiva su un blocco documentario circoscritto. È del resto mia convinzione – sulla scorta di quanto sostenuto da Alessandro Barbero[4] – che compito dello storico non sia quello di visionare tutta la documentazione esistente su un dato argomento (operazione che nel caso della propaganda “garibaldina” risulterebbe francamente impossibile), bensì tentare di raccogliere materiale sufficiente a suffragare un’ipotesi interpretativa. È questo, in sostanza, il senso del lavoro che qui si presenta: mettere a disposizione del lettore – per lo più modenese, anche se, come si vedrà, la “modenesità” del libro è in realtà solo parziale, essendo Garibaldi il vero “protagonista” del volume – una base documentaria ben riconoscibile per inquadrare un argomento che mi auguro possa destare un minimo di interesse.

Al riguardo vale forse la pena sottolineare che sul Garibaldi “fascista” non è stato scritto molto. A parte alcuni saggi apparsi in miscellanee o su riviste specialistiche, e fatta eccezione per le monografie di Elena Pala[5] (che comunque si concentra quasi esclusivamente sul periodo della RSI) e di Patrizia Laurano[6], è senz’altro lecito sostenere che manchi uno studio approfondito della versione in camicia nera del mito garibaldino. Ciò premesso, va da sé che l’ambizione di questo lavoro sia proprio quella di colmare, almeno in parte, questa lacuna, pur con tutti i limiti che derivano – come detto – dalla scelta di consultare una porzione ridotta di documenti, rispetto alla totalità di quelli disponibili in ambito nazionale.

Il volume intende raggiungere un vasto ventaglio di lettori, fermo restando che il rigore del metodo scientifico – cui non ho voluto rinunciare – impone di seguire alcune regole (in particolare l’uso di note e la critica delle fonti) che potrebbero disorientare i non avvezzi alla saggistica storica. In concreto, il senso della precisazione è che non sono richieste particolari conoscenze preliminari. Presumendo, infatti, che chi sfoglia queste pagine conservi, rispetto al tema in esame, solo qualche sbiadito ricordo di studi scolastici, ho deciso di dedicare l’intero primo capitolo alla biografia di Garibaldi[7], cercando, nei limiti del possibile, di far luce sulle questioni più controverse della vita del Generale, e allo stesso tempo di confutare alcune gravi inesattezze oggi largamente propagandate da libri, quotidiani e soprattutto siti internet.

Nel secondo capitolo mi sono occupato diffusamente della nascita, dello sviluppo e della evoluzione del mito garibaldino, dal Risorgimento sino ai nostri giorni. Un mito, come detto, straordinariamente trasversale, senza dubbio il più longevo della storia dell’Italia unita, capace di resistere in parte ancora oggi, pur al netto della dilagante affermazione di un antimito che in gran parte recupera alcuni stereotipi ottocenteschi.

Fatta luce sul personaggio Garibaldi, il terzo capitolo si sofferma sul fascismo modenese, con l’obiettivo di inquadrare a livello generale un contesto storico ben preciso e di illustrare a grandi linee l’ambiente culturale all’interno del quale nacquero ed operarono i giornali, i periodici e le riviste presi in esame per lo studio della propaganda garibaldina.

L’ultimo capitolo, infine, si concentra sulla stampa fascista modenese e sullo sfruttamento propagandistico del mito del Nizzardo, attraverso l’analisi di ampi e numerosi stralci degli articoli più significativi. L’obiettivo è quello di far parlare, il più possibile, i giornali dell’epoca, fornendo al lettore gli strumenti necessari per una corretta interpretazione dei passi citati.

Detto questo, credo sia bene concludere questa introduzione con un’avvertenza. Al giorno d’oggi Garibaldi (e più in generale la storia come disciplina) corre il rischio di venire risucchiato da una sorta di vortice mediatico alimentato in parte dalla politica, ma soprattutto da certe correnti revisionistiche che godono di grande visibilità, specialmente su internet. A lungo percepito come eroe del popolo e primo artefice dell’unità nazionale, nell’ultimo ventennio il Nizzardo si è di fatto sedimentato nell’immaginario collettivo quale simbolo di un’Italia “istituzionale” contro la quale può tornare talvolta utile puntare il dito per difendere interessi di parte. Etichettato sbrigativamente quale nemico, a seconda dei casi, della Chiesa, del nord o del sud, Garibaldi oggi resiste soprattutto come antimito, in un paese alla continua ricerca di responsabili (o capri espiatori) cui poter addebitare l’attuale stato di crisi economica. Rispetto a questo quadro, il presente lavoro intende mantenere – nei limiti del possibile – un netto distacco: non si propone, cioè, di fare il “tifo” per o contro Garibaldi, o di far emergere una storia – in linea con la tendenza del momento – pro o contro il Risorgimento o il fascismo[8]. Esso, al contrario, è il frutto della volontà di approfondire per conoscere, di analizzare per comprendere, di riflettere non per giudicare, ma per riuscire a rispondere a qualche interrogativo in più. La storia, del resto, non è una trasmissione televisiva: non deve tenere conto dei dati dell’Auditel o misurare indici di gradimento, assecondando ad ogni costo i “gusti” del pubblico. La storia deve seguire i binari di un metodo di lavoro scientifico, senza far sventolare bandiere. A questo metodo, con i miei limiti, ho cercato di attenermi.



[1] L’espressione è di Mario Isnenghi, il quale a sua volta la trae da Agostino Depretis, del parere che Garibaldi rappresenti «un concetto; tutta la sua vita lo rappresenta: il riscatto dei popoli, la giustizia, il diritto nazionale, l’unità d’Italia. Se volete chiamarlo rivoluzione, chiamatelo; ma sarà la rivoluzione disciplinata, ordinata a un fine santissimo, al fine di liberare l’Italia, al fine di unificarla, a un fine d’ordine e di libertà» (citato in M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Il mito, le favole, Donzelli, Roma 2010, p. 59. La prima edizione – Donzelli 2007 – recava il seguente sottotitolo: Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato).

[2] L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Laterza, Roma-Bari 2007, p. XXXIV.

[3] Per queste statistiche si veda la conferenza di Alessandro Barbero intitolata Pensare l’Italia. Garibaldi, tenuta nel 2010 in occasione del Festival della Mente di Sarzana (http://www.festivaldellamente.it/it/video/?plID=PLTLuh0t T5lvoPRxNEpaAIQ4xYwc19mz1C&annovid=2010).

[4] Al riguardo, si veda il dibattito Barbero-De Crescenzo su Fenestrelle (http://www.storiainrete.com/7509/in-primo-piano/video-ecco-il-dibattito-barbero-de-crescenzo-sul-carcere-di-fenestrelle/).

[5] E. Pala, Garibaldi in camicia nera. Il mito dell’Eroe dei Due Mondi nella Repubblica di Salò 1943-1945, Mursia, Milano 2011.

[6] P. Laurano, Consenso e politica di massa. L’uso del mito garibaldino nella costruzione della nazione, Bonanno, Acireale-Roma 2009.

[7] L’intento divulgativo di questo lavoro ha reso necessaria una corposa parte di fatto introduttiva, volta ad inquadrare con un buon livello di approfondimento la biografia del Nizzardo, la nascita e lo sviluppo del mito garibaldino e le dinamiche generali del fascismo modenese. Di conseguenza, un lettore particolarmente ferrato in materia di studi garibaldini e – perché escluderlo? – profondo conoscitore della realtà modenese potrebbe ritenere superflui – o quantomeno ridondanti – i primi tre capitoli, e liquidarli rapidamente per concentrarsi sul capitolo 4, dedicato alla stampa fascista modenese. Ciò premesso, scusandomi con il lettore per l’“anomalia” che è all’origine di queste pagine, consiglio ugualmente di non ignorare i primi tre capitoli, se non altro per non correre il rischio di incontrare difficoltà interpretative.

[8] «La storia – scrive Denis Mack Smith – non ha per fine di prosciogliere o condannare, e nemmeno certamente di cancellare quel che può esservi di doloroso e imbarazzante, bensì di provarsi a comprendere e rendere intelligibile il passato» (D. Mack Smith, Le guerre del Duce, Mondadori, Milano 1992, p. VIII).

La vita di Nazario Sauro e il martirio dell'eroe

 




Introduzione della nuova edizione (da me curata) del libro di Carlo Pignatti Morano La vita di Nazario Sauro e il martirio dell'eroe (Il Fiorino 2017)



La scoperta di questo libro su Nazario Sauro – e, di conseguenza, il desiderio di pubblicarne una seconda edizione – risale all’estate del 2016. Stavo conducendo ricerche in archivio per la stesura del mio Camerata Garibaldi[1] (che sarebbe uscito poco meno di un anno dopo), allorché, consultando la «Gazzetta dell’Emilia» del 1922, mi imbattei in un articolo intitolato Gli eroismi, il processo e il martirio di Nazario Sauro nel libro documentato di un ufficiale modenese[2]. Leggendolo, scoprii che l’ufficiale modenese in questione rispondeva al nome di Carlo Pignatti Morano: si trattava cioè – come in poco tempo ebbi modo di verificare – del fratello del mio bisnonno da parte di madre, che dopo una lunga carriera in marina e una medaglia d’argento al valore militare fu nominato senatore nel 1939, cinque anni prima della morte (sopraggiunta a Firenze nell’estate del 1944).

L’articolo esordiva in un modo che trovai accattivante: «Un ufficiale superiore della nostra Marina, Carlo Pignatti Morano di Modena, ha compilato un libro, che rimarrà nella storia del nostro Risorgimento: rimarrà, anche, nella storia delle grandi anime»[3]. Di questo incipit mi colpirono essenzialmente due aspetti. In primo luogo la sottolineatura della “modenesità” del biografo di Nazario Sauro: è curioso – pensai – che le gesta di un eroe della Grande Guerra, menzionato finanche nella celeberrima Leggenda del Piave, siano state narrate da un mio concittadino, per giunta membro della mia famiglia. Subito dopo, tuttavia, mi soffermai a riflettere brevemente sulla parola «Risorgimento», che può apparire un tantino fuori luogo nel contesto del primo conflitto mondiale. Oggi infatti siamo abituati a considerare risorgimentali gli avvenimenti che precedettero e immediatamente seguirono il conseguimento dell’unità nazionale, ed è sufficiente sfogliare un qualunque manuale di storia – liceale o universitario – per verificare che i  capitoli dedicati al Risorgimento si arrestano al 1866 (terza guerra di indipendenza) o, tutt’al più, al 1870 (breccia di Porta Pia). Tuttavia, per un italiano del 1922 Nazario Sauro era da annoverare tra i martiri del Risorgimento, giacché la vittoria di quattro anni prima aveva finalmente portato al completamento del processo di unificazione nazionale, attraverso il congiungimento alla patria delle cosiddette «terre irredente». Questa considerazione, sulla quale tornerò, mi parve di non poco conto.

Al contrario dell’incipit, il resto dell’articolo non era particolarmente stimolante. Si trattava infatti di una classica recensione, contenente nulla di più degli episodi salienti della vita di Nazario Sauro. In pratica, un riassuntino. Ciò che mi colpì, invece, fu la constatazione che potei fare subito dopo: digitando il titolo del volume del mio avo sul sito dell’OPAC (Online Public Access Catalogue) modenese, realizzai che nelle biblioteche dell’intera provincia il libro era (ed è tuttora) introvabile. Il che mi parve davvero incredibile. La vita di Nazario Sauro e il martirio dell’eroe di Carlo Pignatti Morano fu stampata nel 1922 da Treves, editore tra i più prestigiosi dell’epoca, nel cui catalogo figuravano opere di scrittori del calibro di Edmondo De Amicis, Grazia Deledda, Ippolito Nievo, Luigi Pirandello e Giovanni Verga[4]: come era possibile, quindi, che nessuna biblioteca modenese ne custodisse una copia? Ricontrollai più volte, ma l’esito delle mie ricerche rimase sempre lo stesso.

Di lì a qualche giorno riuscii comunque a procurarmi il libro, acquistandolo su internet. Il volume consta di 217 pagine (più 5 della Prefazione dell’autore e altrettante per gli indici) e di 50 immagini in bianco e nero. Sfogliandolo, pensai immediatamente che si trattasse di un lavoro ben fatto: i documenti che stanno alla base della ricerca sono infatti citati con precisione, mentre i ricordi di Carlo Pignatti Morano – che fu compagno d’armi di Sauro – non solo non appesantiscono la narrazione, ma favoriscono anzi la comprensione degli avvenimenti. La sola lacuna è rappresentata dall’assenza di un indice dei nomi, a mio avviso utile per inquadrare rapidamente i protagonisti delle diverse vicende.

Queste impressioni trovarono in seguito una preziosissima conferma nelle parole che potei scambiare per telefono con Romano Sauro, nipote dell’eroe, autore di una bella biografia del nonno uscita per i tipi de La Musa Talìa nel 2013[5]. Non solo, infatti – mi disse il discendente del marinaio capodistriano –, la biografia di Carlo Pignatti Morano è accurata, ma è senza dubbio la migliore di quelle pubblicate negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, troppo intrise di retorica patriottarda di stampo fascista.

Questa opinione – che io peraltro condivido – necessita di un breve chiarimento. Anche il libro dell’ufficiale modenese fa alcune concessioni alla retorica, e non potrebbe essere altrimenti. Lo stile dell’epoca era quello: sarebbe da ingenui meravigliarsene. Suggerisco un solo esempio, che mi pare chiarificatore. In tutto il volume, la parola «odio» (con i suoi derivati) compare ben 16 volte, ovviamente riferita per lo più all’Austria. Ora, è comprensibile che per un lettore del nostro secolo frasi come «Tanto era il suo odio per tutto quello che era austriaco» risultino stonate, fuori luogo e gratuitamente aggressive. Per fare chiarezza, è necessario però collocare l’opera nel suo tempo, in un contesto storico, cioè, contrassegnato da fortissime contrapposizioni e da grandi passioni collettive. Il senso dell’odio antiaustriaco di Sauro è reso efficacemente da un altro biografo dell’eroe, Giovanni Quarantotto:

 

[All’Italia] egli [Sauro] contrapponeva una forza oscura, perversa, brutale: l’Austria. Italia ed Austria erano per lui i termini antitetici per eccellenza. L’una la luce, l’altra la tenebra; l’una il bene, l’altra il male; l’una il diritto, l’altra il sopruso. E all’Italia dava egli tutto il suo amore e su l’Austria riversava tutto il suo odio; amore ed odio che non conobbero mai tregua né misura e che furono gli alterni stimoli, le costanti leggi della sua vita[6].

 

Pur tenuto conto della particolare situazione dell’Istria – terra «irredenta» –, all’origine di questa antitesi Italia-Austria stava anche una radicata tradizione culturale riconducibile al Risorgimento e, soprattutto, a decenni di propaganda liberale. Per gli uomini della generazione di Sauro – nato nel 1880 –, le vicende che avevano condotto all’unità della penisola costituivano un bagaglio di leggende e di miti – di fatto inscindibili dall’idea di patria – dai quali concretamente dipendeva il senso di appartenenza alla comunità nazionale. Personaggi come Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele II erano descritti come autentici eroi del riscatto di un popolo stanco di subire le vessazioni delle potenze straniere. E l’Austria, in quest’ottica, rappresentava il nemico per antonomasia, il padrone-tiranno che imprigiona e impicca i patrioti (si pensi a Pellico e Maroncelli e ai martiri di Belfiore), che reprime nel sangue le insurrezioni popolari (come nel caso delle dieci giornate di Brescia), che umilia e schernisce l’Italia, considerata da Metternich una semplice «espressione geografica».

Il Risorgimento, pertanto, era il mito fondante della nazione, intendendo con la parola «mito» – come bene chiarisce Patrizia Laurano – il racconto di «un fatto esemplare, idealizzato […] capace di polarizzare le aspirazioni di una comunità o di un’epoca, elevandosi a simbolo privilegiato e trascendente», oppure un «insieme di credenze, di solito messe in circolazione sotto forma di racconto, concepite da una comunità riguardo a se stessa basate su percezioni piuttosto che su verità accertate storicamente»[7].

Garibaldi, per esempio, si presentava così ai lettori di Cuore di Edmondo De Amicis, grande capolavoro della letteratura per l’infanzia uscito nel 1886:

 

Egli aveva la fiamma dell’eroismo e il genio della guerra. Combatté in quaranta combattimenti e ne vinse trentasette. Quando non combatté, lavorò per vivere o si chiuse in un’isola solitaria a coltivare la terra. Egli fu maestro, marinaio, operaio, negoziante, soldato, generale, dittatore. Era grande, semplice e buono. Odiava tutti gli oppressori, amava tutti i popoli, proteggeva tutti i deboli; non aveva altra aspirazione che il bene, rifiutava gli onori, disprezzava la morte, adorava l’Italia. Quando gettava un grido di guerra, legioni di valorosi accorrevano a lui da ogni parte: signori lasciavano i palazzi, operai le officine, giovanetti le scuole per andar a combattere al sole della sua gloria. In guerra portava una camicia rossa. Era forte, biondo, bello. Sui campi di battaglia era un fulmine, negli affetti un fanciullo, nei dolori un santo[8].

 

Questo dunque era il mito: un racconto di fondazione e di formazione. Ha scritto in un recente volume Marcello Veneziani:

 

Il mito è il racconto sorgivo sulla nascita della vita, del pensiero e del mondo.

Il mito attesta l’origine e tramanda la fondazione alla luce di un Inizio. In principio era il mito. Il mito è per la storia quel che l’anima è per il corpo.

Il mito è la vista ulteriore che trasforma il nostro sguardo e apre altri orizzonti[9].

 

Per gli italiani della generazione di Sauro, pertanto, il mito del Risorgimento era il racconto eroico della rinascita della patria. Un racconto che entusiasmava i giovani e commuoveva gli anziani, che suscitava emozioni e creava aspettative. Per questo la Grande Guerra fu considerata da molti italiani un’occasione imperdibile per completare il processo di unificazione della penisola e scacciare, finalmente, gli austriaci dal suolo nazionale. Senza il mito del Risorgimento, l’irredentismo – e con esso la figura di Nazario Sauro – è inspiegabile.

Sul concetto di irredentismo fa chiarezza Giovanni Sabbatucci:

 

«Irredente», ossia non redente, non salvate, non liberate sono quelle terre e quelle popolazioni che si trovano a essere soggette al dominio politico di uno Stato diverso da quello cui le destinerebbe la nazionalità. Irredentismo è il movimento o la corrente politica che si adopera per porre rimedio a questa ingiustizia e per riunire quelle terre e quelle popolazioni alla madrepatria. Il concetto di irredentismo presuppone dunque che vi sia un ordine «naturale» dei popoli da ripristinare e che questo ordine sia fondato sul principio di nazionalità. La parola e il concetto sono infatti tipici prodotti del nazionalismo ottocentesco, di matrice romantica e mazziniana[10].


Fu Matteo Renato Imbriani, garibaldino che aveva partecipato alla spedizione dei Mille, a coniare nel 1877 l’espressione «terre irredente» con riferimento al Trentino e alla Venezia Giulia. L’aggettivo «irredento» – da cui il sostantivo «irredentismo», probabilmente di derivazione austriaca, da intendersi originariamente in senso dispregiativo – nacque dunque per definire (con quel tono aulico che era tipico della cultura di matrice mazziniana) una lotta tesa a raggiungere la piena indipendenza nazionale. Una lotta che tuttavia – scrive Sabbatucci – «faceva appello più al sentimento che alla logica, si fondava su un richiamo identitario più che su principi universalmente applicabili»[11].

L’irredentismo italiano palesava infatti alcune evidenti incongruenze di fondo. Per quale motivo, per esempio, venivano rivendicate con maggiore convinzione le terre soggette all’Austria rispetto a quelle appartenenti alla Francia (Corsica, Nizza e Savoia)? Ma soprattutto: come gestire le minoranze etniche (si pensi agli slavi dell’Istria) che si sarebbero create nei territori redenti? Superfluo dire che a queste domande gli irredentisti dell’epoca rispondevano per lo più con una superficialità che, da un lato, era figlia della tradizione austrofoba ereditata dal Risorgimento, e dall’altro finiva per sfociare nel ragionamento apodittico secondo cui – ironizza Sabbatucci – «le terre irredente devono essere annesse all’Italia perché sono italiane e sono italiane perché devono essere annesse all’Italia»[12].

In definitiva, ciò che preme rilevare è che l’irredentismo – dopo decenni di stasi, contrassegnati dalla pacifica coesistenza con l’Austria in nome dell’alleanza stipulata nel 1882 – conobbe un clamoroso rilancio nel 1914 poiché era radicato in profondità nell’immaginario collettivo della nazione. Esso faceva appello a sentimenti e stati d’animo di fatto inscindibili dal mito del Risorgimento, consustanziali cioè rispetto a un racconto che all’Impero asburgico assegnava il ruolo di “cattivo” per eccellenza. Il successo delle «radiose giornate di maggio» del 1915 si comprende perciò solo analizzando i contenuti di una propaganda vecchia di oltre mezzo secolo e tenendo conto del fatto che un messaggio politico, per essere realmente efficace, non deve necessariamente fondarsi su solide argomentazioni (il che, a ben vedere, non accade quasi mai), ma al contrario deve scuotere l’animo delle persone cui è rivolto. Per questo è bene che sia semplice e diretto. In quest’ottica, l’Austria è il secolare nemico e Francesco Giuseppe è l’«imperatore degli impiccati», come griderà Sauro in punto di morte: inutile girarci intorno.

La propaganda – e il fenomeno si acuì con il proseguimento della guerra – raffigurava i nemici come esseri mostruosi, selvaggi e infidi. Ha scritto al riguardo Angelo Ventrone:

 

La propaganda politica […] si fonda molto spesso sulla netta divisione della realtà in bene e male, amico e nemico; e ciò è tanto più vero in caso di guerra, visto che lo scopo esplicito diventa allora quello di spingere la comunità all’unione e all’accantonamento di ogni divergenza per far fronte al comune pericolo. Il legame tra elemento morale ed elemento fisico diventa essenziale: la bruttezza o la deformità fisica, infatti, servono a descrivere i segni di una più profonda e sostanziale bruttura morale, e l’enfatizzazione dei misfatti del nemico e della sua irriducibile diversità hanno l’obiettivo di accrescere l’odio nei suoi confronti e di legittimare i sacrifici che il conflitto richiede. In tali casi, l’immagine diventa «cruda» e le parole «nude»; il linguaggio si fa brutale, non dissimula, ma esalta la violenza, incita all’odio. La guerra, infatti, non ammette sfumature e quindi tende a semplificare i messaggi: non si vuole più parlare, ma solo far vedere e sentire. La parola raziocinante tende a indietreggiare, la frase a scomparire. Dominano immagini forti, aggressive, eccessive. Lo scopo non è di indurre alla riflessione ma all’azione[13].

 

Questo dunque era il contesto nel quale vissero Nazario Sauro e il suo biografo Carlo Pignatti Morano. Sarebbe un errore per il lettore di oggi giudicare certe espressioni «nude» e «crude» contenute in un libro del 1922 senza tenere conto del clima culturale di quegli anni. Un clima di esaltazione e fervore patriottico senza precedenti, perché mai si era vista in Europa una guerra come quella del 1914-18.

Ciò premesso, non bisogna comunque ignorare che questo stato d’animo collettivo, evidentemente condizionato dalla stampa e dalla propaganda, era riscontrabile pressoché solo nelle classi medio-alte. È bene precisare, infatti, che in Italia i quotidiani avevano una diffusione limitata; erano pensati e strutturati per un pubblico ristretto e borghese, non certo per i ceti popolari, i quali infatti furono poco o nulla contagiati dal patriottismo delle grandi testate. Le tirature dei giornali erano basse (basti dire che nel 1913 il «Corriere della Sera» superava appena le 200.000 copie), e persino gli editori erano il più delle volte «non puri», ossia approdavano «all’editoria mantenendo interessi preminenti in altri comparti produttivi»[14]. La stampa era pertanto, in buona sostanza, elitaria: nel biennio 1914-15 essa da un lato influenzò l’opinione pubblica borghese in favore dell’interventismo; ma dall’altro fu a sua volta condizionata dal nazionalismo che il Risorgimento aveva lasciato in eredità alle generazioni nate dopo l’unità. Per certi versi, il primo conflitto mondiale funzionò come l’innesco di un ordigno pronto ad esplodere da tempo: era come se dopo decenni di propaganda tutta incentrata su episodi di eroismo militare, sul valore del sacrificio, sull’odio antiaustriaco (si pensi anche all’esempio di Goffredo Mameli e al Canto degli Italiani[15]), fosse giunta l’ora di mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti. Per molti di coloro che erano imbevuti della cultura del tempo, sottrarsi alla prova suprema della guerra era sinonimo di viltà e disonore, tanto che anche chi non manifestava aperto entusiasmo spesso preferiva «coltivare la virtù cristiana della rassegnazione»[16], non osando mettere in dubbio la sacralità della patria[17].

A testimonianza del clima di eccezionale fervore patriottico che si respirava all’indomani dello scoppio del primo conflitto mondiale, cito un esempio singolare. Luigi Bertelli, in arte Vamba, il celebre autore del Giornalino di Gian Burrasca, nel 1915 era troppo anziano per arruolarsi. Era nato infatti nel 1860, e apparteneva pertanto a quella generazione che aveva ricevuto in eredità gli ideali del Risorgimento ed era stata educata secondo i dettami di una religione civile basata sul concetto di sacralizzazione della nazione[18]. Convinto mazziniano, Bertelli era approdato all’irredentismo a partire, quantomeno, dal 1906, anno in cui uscì il primo numero del «Giornalino della Domenica», periodico per ragazzi fondato con l’intento non secondario di offrire modelli edificanti (come, per esempio, Carducci, Garibaldi e De Amicis, cui furono dedicati interi numeri). Come sottolinea Antonio Gibelli, il «Giornalino» di Vamba «cercava di educare all’odio antiaustriaco, e configurava una forma inedita di partecipazione dei bambini alla politica, non quella delle “chiacchere parlamentari” ma quella “buona e santa” del nazionalismo»[19].

Con l’ingresso dell’Italia nel conflitto, Bertelli si trovò dunque nella condizione di voler a tutti i costi dare il proprio contributo alla causa bellica, pur senza poter materialmente imbracciare il fucile per sopraggiunti limiti d’età. Prese allora una curiosa decisione. Siccome era in corso di stampa un suo poemetto giocoso – scritto ventisette anni prima – dedicato al Lambrusco di Sorbara, decise di devolvere in beneficenza a favore della causa bellica il ricavato della vendita. Così, nel 1915, Vamba concludeva la Prefazione al volumetto:

 

 Io non avendo né splendor d’oro né vigor di braccio da offrire alla Patria, ho proposto all’Università Popolare [di Bologna], che benevolmente ha accettato, di dedicare la pubblicazione, già in corso, di questo poemetto, ai fini della beneficenza.

[…] In tal modo l’umile lavoro mio, arricchito dal sorriso dell’arte e sotto l’egida di una istituzione tanto benemerita quale si è la Università Popolare, raggiungerà, lo spero, il fine propostosi.

E a me procurerà l’ambita soddisfazione di potere concorrere, sia pure in minima parte, all’innalzamento di quel glorioso edificio che avrà il suo compimento nel dì della immancabile nostra vittoria.

Quel dì colmo il bicchier del buon Sorbara,

brinderemo a Trieste, Trento e Zara![20]

 

Quello di Bertelli mi pare dunque un caso significativo di come la guerra avesse sedotto alla causa interventista e irredentista numerosi italiani, imbevuti di una cultura pluridecennale di stampo marcatamente antiaustriaco, e per questo smaniosi di passare concretamente all’azione per il bene della patria. Vamba (come Nazario Sauro) apparteneva a una generazione di mezzo che non aveva vissuto il Risorgimento, ma ne aveva recepito i valori. Per i nati dopo il 1860, il mito degli eroi del passato costituiva una presenza ingombrante, con il risultato che non pochi si accostarono al patriottismo nazionalista, abbagliati da quella che Piero Calamandrei definì «nostalgia letteraria e romantica» di un tempo che gli stessi giovani temevano destinato «a non ritornare mai più»[21]. Bertelli – e con lui numerosi italiani – si convinse dunque che nel maggio del 1915 fosse finalmente giunta l’ora del cimento. E benché non potesse materialmente combattere il nemico, in cuor suo non poteva accettare di rimanere totalmente estraneo al fascino di una guerra sognata «come sfrenata corsa dietro bandiere sventolanti»[22].

Se ho indugiato su questo aspetto del clima che si respirava in Italia nel biennio 1914-15 è perché ritengo sia fondamentale calarsi nella cultura dell’epoca per poter apprezzare un libro che sta per compiere un secolo di vita. Il volume di Carlo Pignatti Morano, infatti, va letto come un prezioso documento storico, oltre che come biografia di Nazario Sauro. Solo contestualizzandolo è possibile apprezzare l’entusiasmo – simile a quello di Bertelli – che ne anima le pagine.

Fatta questa premessa, è bene chiarire ulteriormente le motivazioni che stanno all’origine della decisione di pubblicare una seconda edizione del lavoro di Carlo Pignatti Morano. Come anticipato, vi sono ragioni “campanilistico-familiari” e la volontà di rendere finalmente disponibile al pubblico modenese (ma non solo, ovviamente) un libro che merita di essere conosciuto. C’è però anche dell’altro. Studiando la figura di Nazario Sauro mi sono infatti persuaso che dietro la coltre di retorica che ha a lungo ricoperto l’immagine mitica del marinaio di Capodistria sia possibile scoprire un personaggio problematico, non dico attuale – perché va da sé che i valori (o disvalori?) della nostra epoca non siano più compatibili con quelli di un volontario di guerra del 1915 –, ma di certo sorprendentemente interessante. Il Sauro che conoscevo prima era essenzialmente quello della Leggenda del Piave, ossia il martire che, insieme con Guglielmo Oberdan e Cesare Battisti, nei versi conclusivi del celebre canto forma un’ideale triade eroica dell’irredentismo italiano:

 

Si vide il Piave rigonfiar le sponde,

e come i fanti combatteron l’onde…

Rosso di sangue del nemico altero,

il Piave comandò:

«Indietro va’, straniero!».

 

Indietreggiò il nemico

fino a Trieste, fino a Trento…

E la vittoria sciolse le ali al vento!

Fu sacro il patto antico:

tra le schiere, furon visti

risorgere Oberdan, Sauro, Battisti…

Infranse, alfin, l’italico valore

le forche e l’armi dell’Impiccatore!

 

Sicure l’Alpi… Libere le sponde…

E tacque il Piave: si placaron l’onde…

Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,

la Pace non trovò né oppressi, né stranieri![23]

 

Sauro ovviamente fu anche questo: un eroe istriano – e quindi suddito austriaco – che si arruolò volontario nella marina italiana, cadde prigioniero e venne condannato a morte per «alto tradimento». Tuttavia, è lecito scorgere ben altro dietro il pomposo e retorico ritratto ufficiale sedimentatosi nell’immaginario della nazione in particolare nel corso degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Sauro, infatti, fu anzitutto un combattente per la libertà – era considerato «il Garibaldi dell’Istria»[24] –, un uomo romanticamente disposto a donare se stesso per un ideale di giustizia, un eroe – certo – non perché sposò una causa vincente, ma perché seppe e volle morire per difendere ciò in cui credeva. Le lettere che nel 1915 indirizzò alla moglie e al primogenito Nino – presagendo il proprio destino nelle mani dei carnefici austriaci – sono una prova evidente in tal senso. Esse parlano dell’amore per l’Italia (e non dell’odio per il nemico), dei «nomi di libertà» scelti per i cinque figli, del senso del dovere e della patria intesa quale «plurale di padre»[25]. Non c’è retorica, a ben vedere, in questi scritti, ma solo la grandezza di un uomo che è pronto a morire per un ideale, semplicemente perché ritiene che sia la cosa giusta da fare. Il dovere, in sostanza, va compiuto fino in fondo: è questo – io credo – l’insegnamento più nobile ricavabile dalla vicenda di Nazario Sauro. E con dovere non intendo quello nei confronti delle istituzioni, bensì la volontà di obbedire al supremo, inappellabile giudice di ogni essere umano: la coscienza. Tecnicamente, infatti, Sauro fu un traditore, giacché impugnò le armi contro l’Austria pur essendo suddito di Francesco Giuseppe. Seguendo questa logica, però, non si salva nessun rivoluzionario, nessun combattente che intenda sovvertire un ordine costituito che ritiene ingiusto: persino Stauffenberg formalmente tradì la patria attentando alla vita di Hitler! Il punto quindi è un altro. Posto che il concetto di tradimento – come bene evidenzia in un recente libro Marcello Flores – è sempre relativo[26] (il che implica che in ogni guerra, a seconda dei punti di vista, un partigiano possa essere considerato un brigante o un patriota), Sauro va senz’altro assolto perché obbedì alla propria coscienza di italiano fino al sacrificio della vita. Del resto, come sottolinea giustamente il pronipote Francesco, se il tradimento può essere solo intenzionale, nulla può essere imputato ad un soldato che in assoluta buona fede combatté e morì per difendere i valori in cui credeva[27].

Su questo tasto la biografia di Carlo Pignatti Morano batte con insistenza. Per l’ufficiale modenese, Sauro era un eroe in quanto incarnazione del senso del dovere. Ogni pagina trasuda ammirazione per il marinaio capodistriano, anche in nome di un’amicizia – cementatasi nel contesto del comune impegno bellico – che evidentemente andava oltre la banale cordialità dei rapporti. È lo stesso Carlo Pignatti Morano a scriverlo nella Prefazione:

 

Nei mesi trascorsi insieme, nella comunanza dei pensieri, dei pericoli e delle idealità, io posso ben dire di averlo profondamente conosciuto, di averne apprezzato tutte le doti più belle: l’ardimento, la tenacia, la bontà dell’animo quasi fanciullesca, il patriottico entusiasmo. Egli mi dimostrava un rispettoso affetto perché vedeva e sentiva di aver in me, più che un superiore, un amico, e mi confidava le sue idee, i suoi progetti, tante volte fantastici, irrealizzabili, ed anche i suoi affanni nei momenti di tristezza[28].

 

Dopo la morte di Sauro, Carlo Pignatti Morano – che «per primo [ebbe] fra le mani l’incartamento austriaco, e [fece] indagini per la ricostruzione della verità storica»[29] – frequentò a lungo la casa e la famiglia dell’eroe per raccogliere informazioni utili alla stesura del suo libro. Anche Romano Sauro, nella sua bella biografia del nonno, ci tiene a ricordarlo[30]. I due marinai, del resto, erano stati compagni d’armi, e in particolare avevano recitato un ruolo da protagonisti nella cosiddetta “beffa di Parenzo” (il modenese come ideatore del piano e il capodistriano come esecutore materiale[31]).

Il libro che qui si ripresenta è dunque innanzitutto una testimonianza diretta. Testimonianza ben documentata – dal momento che riporta con scrupolo gli atti del processo di Pola caduti in mano italiana al termine del conflitto –, che tuttavia rappresenta pur sempre un racconto “di parte”, scritto da un protagonista di quegli anni, coinvolto in prima persona in alcune delle vicende narrate. La precisazione è d’obbligo, indispensabile per poter comprendere e apprezzare un libro che è esso stesso un prezioso documento storico. Occorre perciò tenere presente che l’autore non è un narratore distaccato, come prova, per esempio, un’accorata lettera indirizzata nel marzo del 1921 all’onorevole Luigi Siciliani, nella quale l’ufficiale modenese – desideroso di contribuire alla glorificazione dell’«ultimo Martire d’Italia» – protestava contro la decisione del ministro della Marina di vietare la pubblicazione dei documenti relativi al processo Sauro[32].

Ma chi era, in definitiva, Carlo Pignatti Morano? Nato a Modena il 2 settembre 1869, il futuro biografo di Nazario Sauro frequentò l’Accademia Navale di Livorno, conseguendo la nomina a guardiamarina nel 1890. Intrapresa la carriera militare, prese parte alla guerra italo-turca del 1911-12 quale comandante in 2ª della corazzata Sicilia. Al momento dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale era in comando della flottiglia torpediniere costiere dell’Alto Adriatico (incarico che tenne fino all’aprile del 1918). Promosso capitano di vascello nel 1916, prese parte a numerose azioni di guerra (tra cui il forzamento del canale di Fasana e l’incursione nella rada di Trieste, che portò all’affondamento della corazzata austriaca Wien), meritando per il complesso della sua attività una medaglia d’argento al valore militare e le croci di cavaliere e di ufficiale dell’ordine militare di Savoia. Nel 1920 lasciò il servizio attivo per riduzione dei quadri, conseguendo successivamente nella riserva navale le promozioni a contrammiraglio, ad ammiraglio di divisione e ad ammiraglio di squadra (nel 1926). Nominato senatore nel 1939, morì a Firenze il 30 luglio 1944, pochi giorni prima della liberazione della città[33].

Carlo Pignatti Morano era dunque un militare, un uomo di guerra. Oltre a questo dato, scorrendo la sua biografia deve saltare all’occhio un altro elemento fondamentale: ovvero che aderì al fascismo, guadagnandosi persino la nomina a senatore. Rispetto a questa considerazione, tuttavia, è bene fare due precisazioni. La prima, ovvia, è legata alla cronologia. La vita di Nazario Sauro uscì nel 1922, e quindi fu scritta prima dell’avvento di Mussolini al potere. È importante sottolinearlo. Rispetto infatti alle pubblicazioni sullo stesso tema degli anni Trenta, la biografia di Carlo Pignatti Morano è meno intrisa di retorica, risulta più scorrevole, più ariosa, se mi si passa il termine. Il che non significa – lo si è detto, ma vale la pena ribadirlo – che il libro dell’ufficiale modenese sia scritto in uno stile asciutto e distaccato, sul modello della moderna saggistica storica. Troviamo anche qui espressioni come «il sacro fuoco di fede nei più alti destini della Patria»[34], con le parole «fede» e «Patria» (rigorosamente con l’iniziale maiuscola) che in effetti hanno già qualcosa di fascista. Tuttavia non si arriva ancora all’estremo di un Arrigo Pozzi, che nel 1936 descrive Sauro come «un popolano di quella razza generosa che, a Genova, colla sassata di un Balilla, mette in fuga gli austriaci»[35] (e qui l’accento cade inesorabilmente, oltre che su Balilla, sulla parola «razza», subito seguita da un aggettivo – «generosa» – che contiene in sé l’esplicita rivendicazione di una superiorità storica e culturale). In sostanza, schematizzando, il libro di Carlo Pignatti Morano può essere tacciato di protofascismo, ma non di fascismo. È una differenza apparentemente insignificante, che tuttavia non può essere trascurata. Il Sauro che emerge dalle pagine dell’ufficiale modenese è infatti essenzialmente un eroe di guerra, apprezzato soprattutto per doti quali il coraggio e lo spirito di sacrificio. Di contro, il Sauro strumentalizzato dal fascismo diventerà di lì a poco il simbolo di un’italianità imposta a tutti i popoli di confine, l’incarnazione di un ideale eroico di superiorità razziale.

La seconda precisazione è di carattere congetturale. Pur premettendo, infatti, di non essere riuscito a trovare testimonianze certe relative alle intime convinzioni politiche di Carlo Pignatti Morano, è forse lecito presumere che egli – di nobili natali ed estraneo, negli ultimi mesi di vita, all’esperienza di Salò[36] – non fosse un fascista estremista. Si tratta – mi rendo conto – di una considerazione di scarso valore, che tuttavia potrebbe parzialmente avvicinare l’ufficiale modenese alla sensibilità della nostra epoca.

In definitiva, il senso di queste raccomandazioni mi pare piuttosto evidente: quando si sfoglia un libro vecchio di un secolo, è necessario calarsi nella mentalità del suo autore, onde evitare di equivocare alcuni passaggi o, peggio ancora, di esprimere giudizi affrettati, viziati da anacronismi. Carlo Pignatti Morano appartiene ad un’epoca i cui valori dominanti sono tramontati (nel bene e nel male, si potrebbe aggiungere). Ciò che era importante per lui può apparire vacuo o addirittura ingiusto a un italiano del XXI secolo. Lo stesso Nazario Sauro, se non si va oltre la retorica dell’eroismo di guerra, fatica ad emergere come personaggio “raccontabile” nell’Italia antimilitarista, individualista e consumista dei giorni nostri.

La sfida che accompagna questa seconda edizione de La vita di Nazario Sauro è pertanto duplice: far digerire al lettore un libro datato e suscitare interesse intorno a una figura un tempo mitica, ma oggi per lo più dimenticata. Al riguardo, sento di poter affermare con una certa sicurezza che l’italiano medio dei nostri tempi non sia in grado di rispondere alla domanda «Chi era Nazario Sauro?». Molti non saprebbero nemmeno collocarlo nel tempo e nello spazio. I motivi di questa caduta nell’oblio sono in realtà piuttosto ovvi. Dopo il crollo del regime e la dolorosa perdita dell’Istria all’indomani del secondo conflitto mondiale, Sauro subì una sorta di damnatio memoriae in quanto simbolo considerato eccessivamente compromesso con il fascismo, dopo vent’anni di propaganda di regime. Vale la pena approfondire brevemente questo tema.

Nel 1944, a Capodistria, i tedeschi rimossero il monumento a Sauro inaugurato solennemente nove anni prima, «col pretesto che gli aerei anglo-americani se ne servivano come punto di riferimento nelle incursioni verso il nord»[37]. Nel secondo dopoguerra fu smantellato il museo presso la casa natale di Sauro, e naturalmente scomparve anche la lapide ricordo apposta sulla facciata nel 1919[38]. Nel 1947, infine, pure la salma di Sauro dovette abbandonare Pola: con il passaggio dell’Istria alla Jugoslavia di Tito, il 7 marzo la bara dell’eroe avvolta nel tricolore fu imbarcata sulla motonave Toscana, diretta a Venezia. Giunti nella città della Laguna, il 9 marzo i resti di Sauro furono collocati nel Tempio Votivo del Lido di Venezia, dove riposano da allora[39].

Allo “smantellamento” materiale della memoria del marinaio di Capodistria fece seguito il progressivo dissolvimento del mito, che si tradusse anche in un sempre più marcato disinteresse storiografico. Cito un dato che mi pare esemplificativo: digitando «Nazario Sauro» sul sito dell’OPAC del Servizio Bibliotecario Nazionale compaiono 127 monografie, delle quali ben 84 si riferiscono a volumi stampati entro il 1945. In breve, dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi sono stati pubblicati solo 43 titoli contenenti le parole «Nazario Sauro», in pratica poco più della metà di quelli usciti nel trentennio 1916-1945. Giusto per avere un termine di paragone, Andrea Costa, pioniere del socialismo italiano, mette insieme 138 titoli prima del 1945 (una cifra quindi in linea con quella relativa a Sauro, tenendo conto del fatto che il romagnolo morì sei anni prima del capodistriano) e ben 170 dal dopoguerra in poi[40]. Il che costituisce una prova piuttosto eloquente dello spostamento di interesse da parte della storiografia e della pubblicistica storica. Ancora oggi, per esempio, manca una moderna ed esauriente biografia “accademica” di Nazario Sauro, scritta cioè da un docente universitario, professionista nel campo degli studi storici.

Rispetto a questo quadro, fa sicuramente eccezione la citata monografia di Romano e Francesco Sauro, senza dubbio il miglior volume a tutt’oggi disponibile sulla figura dell’eroe di Capodistria. Ai due autori, infatti, va riconosciuto a mio giudizio il merito di aver messo in risalto il lato umano dell’illustre avo, e soprattutto di aver posto l’accento sugli ideali di libertà che animarono il suo impegno militare. Dalle loro pagine, in sostanza, emerge un Nazario Sauro alleggerito della zavorra della retorica patriottarda.

I pregi di questo recente studio, tuttavia, rispondono solo parzialmente all’esigenza di colmare un grave vuoto storiografico su una figura chiave dell’irredentismo italiano. Nazario Sauro, in altre parole, merita di essere riscoperto, e se l’operazione dei nipoti costituisce un primo indiscutibile passo nella giusta direzione, certo non consente di chiudere la questione. La mia speranza – va da sé – è che questa seconda edizione del lavoro di Carlo Pignatti Morano contribuisca a risvegliare a più livelli l’interesse su Sauro, e che possa magari fungere da sprone per successive iniziative editoriali.

Auspico pertanto che La vita di Nazario Sauro (libro-documento, come già anticipato) possa rappresentare un ponte verso nuove ricerche e approfondimenti. Ho a cuore la cosa dal momento che – sento di doverlo confessare – il mito eroico del marinaio capodistriano mi ha affascinato fin dalle primissime letture che sono all’origine di questo lavoro. Come italiano, mi imbarazza l’oblio che in gran parte avvolge la figura di Sauro, e ancor più mi indignano alcuni velleitari tentativi di screditarne l’immagine[41]. Ma se, ahimè, temo non ci sia cura per certo pseudo-giornalismo malato di scoop sensazionalistici, al problema del silenzio storiografico è senz’altro possibile ovviare.



[1] L. Malavasi Pignatti Morano, Camerata Garibaldi. Lo sfruttamento propagandistico del mito dell’Eroe dei due mondi nella stampa fascista modenese, Il Fiorino, Modena 2017.

[2] R. Barbiera, Gli eroismi, il processo e il martirio di Nazario Sauro nel libro documentato di un ufficiale modenese, in «Gazzetta dell’Emilia», 5-6 maggio 1922.

[3] Ibidem.

[4] Al riguardo, si veda il catalogo riportato in L. Pirandello, L’esclusa, Treves, Milano 1919, pp. 313-319.

[5] R. Sauro, F. Sauro, Nazario Sauro. Storia di un marinaio, La Musa Talìa, Venezia 2013. Il libro di Romano Sauro, scritto a quattro mani con il figlio Francesco, è giunto nel 2016 ad una seconda edizione, in parte rivista ma complessivamente più scarna rispetto alla precedente. In questa sede, pertanto, salvo diversa indicazione, farò riferimento alla prima edizione.

[6] G. Quarantotto, Nazario Sauro, Estratto dalla Rassegna di Trieste L’Alabarda, anno I, n. 4, 1° agosto 1919, p. 3.

[7] Cfr. P. Laurano, Consenso e politica di massa. L’uso del mito garibaldino nella costruzione della nazione, Bonanno, Acireale-Roma 2009, p. 10.

[8] E. De Amicis, Cuore, Introduzione di Domenico Starnone, Feltrinelli, Milano 1993, p. 213.

[9] M. Veneziani, Alla luce del mito. Guardare il mondo con altri occhi, Marsilio, Venezia 2017, p. 7.

[10] G. Sabbatucci, Le terre irredente, in Aa. Vv., Miti e storia dell’Italia unita, Il Mulino, Bologna 1999, p. 71. A scanso di equivoci, vale la pena precisare che il termine «nazione» – da non confondere con il concetto di «Stato» – deve essere riferito a una comunità di individui «che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla realizzazione in unità politica» (http://www.treccani.it/vocabo lario/nazione/). Al riguardo, sottolinea Federico Chabod: «L’idea di nazione è, anzitutto, per l’uomo moderno, un fatto spirituale; la nazione è, innanzi tutto, anima, spirito, e soltanto assai in subordine materia corporea; è “individualità” spirituale, prima di essere entità politica, Stato alla Machiavelli, e più assai che non entità geografico-climatico-etnografica, secondo le formule dei cinquecentisti» (F. Chabod, L’idea di nazione, a cura di Armando Saitta e Ernesto Sestan, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 25-26).

[11] Cfr. G. Sabbatucci, Le terre irredente, cit., pp. 71-74.

[12] Ivi, p. 74.

[13] A. Ventrone, Il nemico interno. Immagini, parole e simboli della lotta politica nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma 2005, p. 4.

[14] Cfr. G. Gozzini, Storia del giornalismo, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 188.

[15] Si leggano almeno, a titolo esemplificativo, le ultime due strofe di quello che sarebbe poi divenuto l’inno nazionale italiano: «Dall’Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano; / ogni uom di Ferruccio / ha il core, la mano; / i bimbi d’Italia / si chiaman Balilla; / il suon d’ogni squilla / i Vespri suonò. // Stringiamoci a coorte, / siam pronti alla morte: / l’Italia chiamò. // Son giunchi che piegano / le spade vendute; / già l’aquila d’Austria / le penne ha perdute: / il sangue d’Italia / e il sangue polacco / bevé col Cosacco; / ma il cor le bruciò. // Stringiamoci a coorte, / siam pronti alla morte: / l’Italia chiamò» (citato in S. Pivato, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 46-47).

[16] A. Gibelli, La Grande Guerra degli italiani. 1915-1918, RCS, Milano 1998, p. 75.

[17] In generale, sui temi inerenti alla stampa e sul clima euforico delle settimane immediatamente seguenti l’entrata in guerra dell’Italia si veda L. Vanzetto, Buona stampa, in M. Isnenghi (diretto da), Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, vol. III, La Grande Guerra: dall’Intervento alla «vittoria mutilata», tomo 2, Utet, Torino 2008, pp. 803-819.

[18] Sui concetti di religione civile e sacralizzazione della politica si vedano soprattutto E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993 (in particolare, per la parte che in questa sede più interessa, le pp. 5-32) e Id., Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari 2007.

[19] A. Gibelli, La Grande Guerra degli italiani, cit., p. 231.

[20] L. Bertelli, Il Lambrusco di Sorbara, Università Popolare G. Garibaldi - Bologna, Bologna 1915, pp. 12-13. Del poemetto di Bertelli mi sono occupato anche in una recente pubblicazione: L. Bertelli, L’amo brusco. Ode burlesca al Lambrusco, introduzione di Luigi Malavasi, saggio di Elena Romani, illustrazioni di Guido Vitiello, Il novello, Bologna 2015.

[21] Cfr. P. Calamandrei, Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924), a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato, Laterza, Roma-Bari 2006, p. VIII.

[22] Citato ivi, p. XI.

[23] Citato in S. Pivato, Bella ciao, cit., pp. 132-133.

[24] Per questo accostamento rimando al capitolo 2, nota 4 (cfr. infra, p. 60).

[25] Cfr. infra, pp. 191-192.

[26] Cfr. M. Flores, Traditori. Una storia politica e culturale, Il Mulino, Bologna 2015, p. 10.

[27] Cfr. R. Sauro, F. Sauro, Nazario Sauro, cit. p. 283.

[28] Infra, pp. 31-32.

[29] C. Pignatti Morano, Nel X anniversario del supplizio di Nazario Sauro (10 agosto 1916), in «Il Popolo d’Italia», 10 agosto 1926.

[30] Cfr. R. Sauro, F. Sauro, Nazario Sauro, cit. p. 399.

[31] Sulla “beffa di Parenzo” – in aggiunta a quanto riportato infra, pp. 86-94 – si veda in particolare S. J. Buchet, F. Poggi, Azione di Parenzo. Ovvero della supposta efficienza dell’Imperiale e Reale Marina Austro-Ungarica, in «Rivista Marittima», febbraio 2010, pp. 99-105.

[32] Cfr. C. Pignatti Morano, Il Processo di Nazario Sauro e il Comandante Carlo Pignatti Morano, in «Gazzetta dell’Emilia», 8-9 marzo 1921. Carlo Pignatti Morano scrisse all’onorevole Siciliani dopo che questi aveva presentato un’interpellanza alla Camera «circa il divieto posto dal ministro della Marina alla pubblicazione dei documenti del processo Sauro». Tra le altre cose, nella lettera si legge quanto segue: «E finalmente le dirò che l’opinione espressa dal ministro, che cioè la pubblicazione dei documenti del Processo nulla può aggiungere alla gloria di Nazario Sauro, è molto discutibile. Io che conosco assai bene i documenti, mi permetto di pensare in modo assolutamente contrario. […] Ultimato il dibattimento, e dopo che l’accusatore ebbe chiesto la pena di morte col capestro, Sauro fu invitato per ultimo a parlare per difendersi. Non si possono leggere senza profonda commozione le sue parole: “Io non ho nulla da dire: ho compiuta la mia missione secondo l’ordine ricevuto, e la compirò fino alla morte!”. Questo sta scritto nei documenti ufficiali austriaci del Processo! E non dica il ministro che la conoscenza e la divulgazione di questi documenti non aggiunge alcuna gloria alla memoria di Nazario Sauro!» (cfr. ibidem).

[33] Per questi cenni biografici cfr. P. Alberini, F. Prosperini, Uomini della Marina 1861-1946. Dizionario biografico, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 2015, p. 417 e il Fascicolo personale del senatore Carlo Pignatti Morano consultabile online sul sito dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica (http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/ed09445904d7899dc1257114 003829b4/0d38950611817cdc4125646f005e808c?OpenDocument).

[34] Cfr. infra, p. 37.

[35] A. Pozzi, Il vero volto di Nazario Sauro. Da documenti inediti, carte di famiglia, ricordi della sorella Maria e dei figli, racconti di amici e di camerati, Pinciana, Roma 1936, p. 33. In questa biografia, tra le altre cose, è riportata la testimonianza del canonico Giovanni Mancini, secondo la quale «In Mussolini egli [Sauro] vedeva l’uomo che avrebbe salvato l’Italia» (citato ivi, p. 161).

[36] Questa notizia si ricava indirettamente dalla lettera che nel settembre del 1944 il figlio Alessandro inviò al «Segretario del Senato» per comunicare il decesso del padre. In essa si legge infatti che la morte di Carlo Pignatti Morano avvenne a Firenze il 30 luglio 1944, «alla vigilia della liberazione di questa città, da lui tanto desiderata» (cfr. Fascicolo personale, cit.).

[37] G. Scotti, Disertori in Adriatico. Pagine sconosciute della Grande Guerra, Hammerle, Trieste 2016, p. 113.

[38] La lapide, dettata da Giovanni Quarantotto, amico d’infanzia di Nazario Sauro, riportava questa scritta: «Fra queste mura / addì XX settembre del MCCCLXXX / sortì gli umili natali / Nazario Sauro / E il destino lo serbava / a coronare di gloria / a santificare di martirio / le ore supreme / del servaggio istriano / Capodistria pose il X agosto MCMXIX / Terzo anniversario / del supplizio dell’Eroe» (cfr. R. Sauro, F. Sauro, Nazario Sauro. Storia di un marinaio, La Musa Talìa, Venezia 2016, p. 314). Negli anni Sessanta, il governo jugoslavo decise addirittura di demolire la casa natale di Sauro, che si salvò solo grazie ad una campagna di protesta promossa dal «Piccolo» di Trieste e al diretto intervento del presidente del Consiglio Amintore Fanfani (cfr. ivi, pp. 315-316).

[39] Cfr. R. Sauro, F. Sauro, Nazario Sauro, cit., pp. 354-364.

[40] Cfr. le voci «Nazario Sauro» e «Andrea Costa» in http://opac.sbn.it/opac sbn/opac/iccu/base.jsp.

[41] Al riguardo, cito per brevità un solo esempio, tratto da quel mare magnum che è la rete. Un articolo non firmato dal titolo Nazario Sauro: eroe scomodo – facilmente reperibile online – riesce a condensare in poche righe una tale quantità di inesattezze e falsità da fare invidia alle riviste da ombrellone. In esso per esempio, con riferimento a Sauro, si legge che, praticando il contrabbando, arrecò prima della guerra «gravosi danni ai suoi concittadini di Capodistria e della costa istriana»; oppure che «non era certo benvoluto dai suoi compatrioti italiani»; o ancora che «Fuggito in Italia per scampare alla giustizia dell’impero, prefigurando facili profitti al termine del conflitto, si arruolò nella Regia Marina quale pilota, esperto delle coste istriane». E per finire una gratuita malignità – davvero di cattivo gusto –, che porta l’autore dell’articolo a commentare con queste stucchevoli parole l’incaglio del sommergibile Pullino presso la Galiola: «Schettino, al confronto, è un provato lupo di mare!» (cfr. https://controguerriglia.wordpress.com/2012/08/11/naza rio-sauro-eroe-scomodo/). Articoli come questo – che non esibisce un solo straccio di prova ed è naturalmente privo di rimandi bibliografici – non meriterebbero alcuna considerazione, se non fosse che purtroppo proliferano soprattutto sul web e finiscono con il condizionare – in riferimento ai più disparati argomenti – un’opinione pubblica assuefatta al sensazionalismo e per questo inevitabilmente attratta dalle cosiddette “controstorie”.

Uve modenesi tra XVIII e XIX secolo. Confronto sinottico tra il censimento di uve di Francesco Pincetti (1752) e quello di Francesco Aggazzotti (1867)

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